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Intellettuali in rivolta contro l’India che lincia e censura

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SOTTO ACCUSA IL PREMIER MODI

Intellettuali in rivolta contro l’India che lincia e censura

Tra i primi a lanciare l’allarme era stato il Nobel Amartya Sen, da sempre critico nei confronti del Partito nazionalista hindu (Bjp) e del premier Narendra Modi. A luglio del 2015, l’economista indiano denunciò l’interferenza dell’esecutivo targato Bjp negli ambienti accademici, affermando di esserne stato una delle vittime, «cacciato della Nalanda university». Ma già nel 2013, all’avvio della competizione elettorale stravinta da Modi, Sen aveva dichiarato di non volerlo alla guida del Governo, perché «non ha fatto abbastanza per far sentire le minoranze al sicuro».

Alimentato dalle violenze ai danni della minoranza musulmana, e in minor misura di quella cristiana, dalle uscite imbarazzanti dei ministri del Bjp, dai libri messi all’indice, il coro delle critiche non ha fatto che crescere in questi mesi, fino a coinvolgere gran parte dell’intellighezia del Paese: venerdì, 25 registi e scrittori indiani hanno seguito l’esempio di un’altra ventina di intellettuali e hanno pubblicamente restituito i premi nazionali ricevuti per denunciare gli attacchi al pluralismo e spingere il Governo a «dare maggiore attenzione ai timori che la natura ed il tessuto della nostra robusta democrazia possano dissolversi nel clima in cui attualmente viviamo». Tra loro l’autrice del “Dio delle piccole cose”, Arundhati Roy, che in una lettera a The Indian Express dichiara di «essere orgogliosa di associarsi alla ribellione degli intellettuali contro la malvagità ideologica».

Pochi giorni prima, era entrato nel dibattito anche il governatore della Banca centrale, Raghuram Rajan, ex capo economista dell’Fmi, con l’appello alla tolleranza lanciato in un intervento all’Indian institute of technology di New Dehli. «Dobbiamo tenere aperta questa società e dobbiamo resistere a ogni tentativo di chiuderla», aveva poi detto alla Bloomberg.

Gli episodi di pestaggi di pastori musulmani, accusati di macellare mucche, sono all’ordine del giorno in India. Nella maggior parte dei casi, le vittime ne escono con lividi, ossa rotte e perdendo i pochi animali che allevano per garantirsi una modesta sussistenza. Spesso, però, ci scappa il morto, come a fine settembre, quando una folla di estremisti hindu ha linciato un musulmano accusato di aver mangiato carne di manzo (la macellazione è bandita in 24 Stati su 29). Sotto i colpi dell’integralismo è caduto anche un accademico, Malleshappa Kalburgi, critico nei confronti del fondamentalismo hindu.

A ottobre, attivisti del partito xenofobo Shiv Sena, alleato del Bjp, hanno lanciato inchiostro sul volto di Sudheendra Kulkarni, capo di un think-tank durante la presentazione di un libro di un ex ministro pakistano. Qualche giorno prima avevano costretto il cantante Ghulam Ali, anche lui pakistano, a cancellare un concerto.

A febbraio del 2014, Penguin India è stata costretta a ritirare il libro «The hindus, an alternative history» in seguito alla battaglia legale intentata contro la casa editrice da un gruppo nazionalista.

All’epoca della separazione del Pakistan dall’India indipendente nel 1947, gli scontri tra hindu e musulmani causarono circa un milione di morti. La frattura non è mai stata sanata, sia nei rapporti con lo Stato confinante, sia all’interno della società indiana, dove i musulmani rappresentano 14% della popolazione e sono spesso ai margini della vita civile ed economica. Le eruzioni di violenza squarciano episodicamente la regola della convivenza, in genere su piccola scala, a volte con stragi come quelle di Mumbai del 2008, ad opera di terroristi pakistani (oltre 164 vittime).

Il premier Modi ha preso le distanze dai recenti linciaggi, ma senza convincere i suoi critici, tra cui anche Salman Rushdie, che lo accusano di non fare abbastanza e quindi di incoraggiare indirettamente i fanatici. Soprattutto non dimenticano il suo passato. Prima di approdare al Bjp, Modi è stato per 27 anni (fin da quando aveva 8 anni) membro della Rashtriya swayamsevak sangh (Rss), l’Organizzazione patriottica nazionale dalle cui fila uscì quel Nathuram Godse che nel 1948 assassinò Gandhi. Attraverso una pervasiva rete di scuole, club e organizzazioni caritatevoli, la Rss si pone come paladina della Nazione indiana (Hindutva) e diffonde in tutto il Paese il suo credo. Coinvolta in una serie infinita di episodi di razzismo e violenza contro i musulmani e i cristiani, è considerata dai suoi critici un’organizzazione paramilitare e para-fascista ed è stata per tre volte dichiarata illegale. È dalla Rss che il Bjp trae la sua ideologia e il governo Modi ha messo molti suoi membri in posizioni di rilievo, comprese la presidenza dell’Istituto per il cinema e la televisione e il Consiglio nazionale della ricerca storica. Il presidente del Bjp e sette ministri hanno aderito in gioventù a questa organizzazione dedita a parate militaresche, che vedono i suoi baffuti adepti sfilare con berretto nero, camicia bianca e bermuda caki. Tra i pochi accessori ammessi, spesso compaiono lunghi bastoni.

Sul passato di Modi pesa soprattutto il massacro avvenuto nel 2002 nel Gujarat. Un progrom di tre giorni, in cui furono uccisi 2mila musulmani (1.200 secondo alcune fonti). L’attuale premier, che all’epoca governava lo Stato, fu accusato di aver chiuso gli occhi sulle violenze, se non di averle addirittura avallate.

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