La rivincita è arrivata, ma Aung San Suu Kyi non potrà salire alla guida del Paese, almeno non nella carica di presidente. Le elezioni, che consegnano la guida del Paese alla National league for democracy (Nld) del Nobel per la pace, sono le prime da 25 anni nelle quali l’establishment militare abbia lasciato all’opposizione la possibilità di vincere. L’ultima volta era accaduto nel 1990. Suu Kyi era tornata in Myanmar solo due anni prima: in poco tempo aveva fondato la Nld e l’aveva guidata al trionfo. Ma la giunta al potere dal 1962 aveva cancellato la volontà popolare e relegato la sua eroina agli arresti domiciliari (le elezioni del 2010 furono invece boicottate dalla Nld, con Suu Ky ancora reclusa).
Il voto di domenica mette in palio il 75% dei seggi parlamentari (quindi 498 su 864), assegnati con il maggioritario secco. I militari, che nel 2011 hanno avviato un graduale processo di democratizzazione lasciandone il governo all’ex-generale Thein Sein, nominano comunque un quarto dei parlamentari di ciascuna Camera, in base a quanto stabilito dalla Costituzione da loro stessi scritto. Questo significa che per ottenere la maggioranza, la Nld deve conquistare due terzi dei seggi in palio.
Il Parlamento, che si insedierà a febbraio, eleggerà poi il presidente, che resta in carica 5 anni, scegliendo tra tre candidati, uno espresso dalla Camera, uno dal Senato e uno dai militari. La scelta avviene a maggioranza semplice. I due perdenti diventano vicepresidenti. San Suu Kyi non può correre per la carica per effetto di un’altra “trappola” costituzionale, quella che vieta di assumere la guida del Paese ai cittadini con parenti stretti stranieri. Suu Kyi ha due figli britannici. Modificare la Costituzione non si può, non senza l’assenso dei militari: le leggi di modifica devono essere infatti approvate dal 75% più uno dei parlamentari.
Il Myanmar è un sistema quasi presidenziale. Il capo dello Stato si insedia alla fine di marzo e sceglie il Governo, all’interno del quale, tuttavia, i militari, sempre per Costituzione, detengono il ministero della Difesa, quello degli Interni e quello degli Esteri, nominati dal comandante delle Forze armate tra i membri dell’esercito.
Costituzione o no, Suu Kyi ha già dichiarato che non si lascerà relegare al ruolo di icona. Lo ha detto pochi giorni prima del voto, quando in una conferenza stampa ha affermato che sarà «al di sopra del presidente». A ottobre, a un giornale indiano, aveva annunciato l’intenzione di assumere la guida del Governo: «Sarò il leader del governo, indipendentemente dal fatto che sarò a meno presidente. Perché no?».
In ogni caso, con la maggioranza del Parlamento, la Nld avrà la possibilità di insediare il proprio candidato alla presidenza. Che sia alla luce del sole o dietro le quinte, il ruolo di Suu Kyi sarà determinante nel prossimo Esecutivo. Alcuni osservatori sollevano perplessità sulla tenuta istituzionale del sistema. Ma la vera incognita riguarda i rapporti con l’establishment militare. Un blocco che potrebbe rivelarsi meno granitico di quanto si pensi. A pochi mesi dal voto, l’ex generale Shwe Mann è stato rimosso dalla carica di presidente dell’Usdp (il partito espressione della giunta) proprio per i legami che stava tessendo con Suu Kyi, fino ad appoggiarne la richiesta di modificare la Costituzione.
Al voto non hanno potuto partecipare circa 700mila rohingya, la minoranza musulmana alla quale il Governo non riconosce diritti civili. Una legge di febbraio li ha cancellati dalle liste elettorali insieme ad altre decine di migliaia di persone di etnia indiana e cinese.
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