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All'Europa serve una politica industriale

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L'EDITORIALE

All'Europa serve una politica industriale

Ancora poco più di un anno fa, a Bruxelles si discuteva di industrial compact, di politica industriale europea, non per nostalgia di dirigismo ma per trovare un insieme coerente di politiche comuni e approcci convergenti in grado di modernizzare il sistema Europa mettendolo al passo con la realtà globale e fargli recuperare crescita, lavoro e competitività internazionale. Ricerca, innovazione tecnologica ed ecologica, regole della concorrenza e aiuti di Stato, politica commerciale, fiscale, investimenti, sburocratizzazione, deregolamentazione: alcune delle variabili della nuova equazione in cantiere.

Dodici mesi dopo, con l'arrivo della nuova Commissione Juncker, perfino il concetto sembra sparito dai radar di Bruxelles. Con l'anti-europeismo che cresce insieme ai nazionalismi anche economici, la scelta può apparire in linea con i nuovi tempi. Alla lunga però rischia non solo di nuocere alla tenuta del mercato unico ma di tagliare l'erba sotto i piedi dell'industria e della stessa attrattività del vecchio continente.Intendiamoci, nessuno a Bruxelles sta suonando la ritirata o preparando nell'ombra l'inversione di marcia. Si accumulano però segnali e decisioni, quasi sempre tra loro slegati, che invece di incentivare il business gli complicano la vita e alla lunga potrebbero finire per metterlo in croce.

Esempio: crisi della siderurgia. In ottobre, tra soffocanti vincoli energetici e ambientali, sovracapacità produttiva e raddoppio in due anni dell'export cinese, l'Europa ha perso 5.000 posti di lavoro, quasi la metà in Gran Bretagna. Tanto che, fatto inconsueto, Londra ha chiesto la riunione straordinaria dei ministri Ue della Competitività. Insieme agli ad dei 5 maggiori gruppi del settore. Sembra incredibile ma argomento bollente ufficiosamente sul tavolo l'ipotesi, allo studio della Commissione Ue, del riconoscimento alla Cina nel 2016 dello status di economia di mercato. Se così fosse, l'Europa sceglierebbe di disarmarsi unilateralmente di fronte a una concorrenza aggressiva e spesso sleale. Sarebbe impossibile, infatti, a quel punto usare gli attuali strumenti di difesa commerciale. Che peraltro Bruxelles intende riformare. Non si sa ancora come.

Che cosa succederà alla fine non è chiaro anche perché, Italia a parte ma non in modo univoco, nessuno si scopre tra gli Stati membri nel timore di attirarsi i fulmini delle ritorsioni cinesi. Intanto non soffre solo l'acciaio: in allarme sono quasi tutti i grandi settori manifatturieri. Quel che oggi colpisce dell'Europa è che si mobiliti sulla Cina perché percepita come minaccia industriale mentre si trastulla nell'apparente apatia sul Ttip, il patto transatlantico su investimenti e commercio che sarebbe una concreta promessa per la sua crescita al rallentatore. Il negoziato è ostaggio di interessi corporativi, veti incrociati, istinti anti-americani e ambiguità soprattutto tedesche. Nemmeno gli Stati Uniti sono senza macchia ma con una differenza fondamentale: loro hanno già in tasca il Tip, l'accordo con il Pacifico, noi non abbiamo alternative equivalenti. E comunque una risposta strategica globale all'altezza della sfida cinese non può che passare per il rafforzamento strutturale dei legami economici euro-americani. Certo, non aiutano gli scandali da “grande fratello”, lo spionaggio Usa a danno degli europei, le manipolazioni nello scambio dei dati. Nè la recente sentenza “Safe Harbour” della Corte Ue che codifica il morbo della diffidenza reciproca. E nemmeno le frodi ambientalistiche perpetrate negli Usa con i motori truccati Volkswagen. O i gap nella cultura alimentare.

Se l'imminente Conferenza internazionale di Parigi sul clima tiene sulla corda l'industria europea che teme nuove erosioni di competitività senza nuovi impegni e costi relativi rigorosamente globali, la politica Ue della concorrenza suscita non diverse perplessità. Sia perché da tempo andrebbe aggiornata alla dimensione del mercato globale (non solo europeo) nei suoi giudizi. Sia perché quando va come di questi tempi, alla guerra dei “tax rulings”, per interposti e illeciti aiuti di Stato alle imprese che ne beneficiano, si muove su un terreno molto friabile. Difficile contestare l'obiettivo di scoraggiare le politiche fiscali aggressive per far recuperare gettito a chi le ha subite o la condanna delle distorsioni di concorrenza sul mercato unico. Ma nell'Europa dove la sovranità nazionale sul fisco è intonsa e protetta dal voto all'unanimità, dove i pre-accordi per abbattere la pressione sulle imprese sono da sempre e tuttora legali, l'irruzione di Bruxelles non su intese future ma pregresse introduce il principio dell'incertezza del diritto fiscale in Europa. Una svolta non propriamente ideale per attirare investimenti. In altre parole, se per recuperare gettito ex-post, si rischia di bruciare lavoro presente e futuro non è detto che alla fine la scelta sia vincente nell'economia globale dove i capitali si muovono liberamente. L'industria europea strapazzata dalla crisi ha bisogno di un approccio strategico organico e coerente. I guizzi in libertà a Bruxelles e dintorni più che un disordine creativo potrebbero alla lunga dar luogo creare al caos distruttivo.

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