Se la sua morte nel corso di un raid americano su Raqqa resta da confermare, Jihadi John ha comunque il destino segnato. Il boia dall’accento britannico, il carnefice che si è macchiato delle peggiori atrocità, che puntava verso la telecamera il coltello con cui decapitava le vittime, minacciando il mondo intero, era da mesi braccato dalle forze antiterrorismo americane, insieme a quelle britanniche, che non hanno risparmiato mezzi e uomini per individuare quel jihadista venuto da lontano. Non era un personaggio importante nella gerarchia dello Stato Islamico, ma certamente era una figura dal grande peso propagandistico. E la propaganda, per lo Stato islamico, è uno dei suoi punti di forza.
I suoi macabri video sono passati per le televisioni di mezzo mondo. Pare sia stato lui - qualcuno sostiene sia certo - a eseguire di propria mano la decapitazione di James Foley, Steven Sotloff, Abdul Rahman Kassig, David Haines, Alan Henning e Kenji Goto, finiti come ostaggi nelle mani dell’Isis e assassinati con l’intento di ricattare i Paesi occidentali e i loro alleati. Su di lui pendeva una taglia di 10 milioni di dollari.
Ma chi è, o chi era, era questo misterioso aspirante jihadista divenuto celebre con il nome di Jihadi John? Chi era questo 28enne di nazionalità britannica, partito nel 2012 alla volta della Siria per unirsi alle file delle Stato Islamico? Mohamed Emwazi, questo il suo vero nome, era nato in Kuwait 28 anni fa. A sei anni si traferisce in Gran Bretagna con la famiglia. Qui compie gli studi alla Quintin Kynaston Community Academy in St John's Wood, nella parte settentrionale di Londra. Come molti dei lupi solitari, o jihadisti della porta accanto, John non si era distinto nella sua adolescenza per un temperamento sanguigno e violento. Né veniva da una famiglia povera e disagiata. Tutt’altro.
L’allora professoressa della scuola, Jo Shuter, ha confessato sorpresa di non aver mai sospettato che quel ragazzo «volenteroso e che si dedicava agli studi» sarebbe divenuto un boia spietato.
Ancora a 14 anni Shuter lo ricorda come un ragazzo tranquillo, capace di assumersi incarichi di responsabilità in attività extrascolastiche. Poi arriva la laurea in informatica all’università di Westminster. Dopo le prime due esecuzioni, l’Ateneo inglese fece sapere in una nota: «Se sarà verificato che i due uomini sono la stessa persona non possiamo che dirci scioccati e disgustati. I nostri pensieri vanno alle famiglie delle vittime». Eppure anche durante i tempi universitari Mohammed era descritto come un giovane volenteroso.
Ma arriva la svolta il percorso che lo porterà nell’inferno jihadista.
Durante un viaggio in Tanzania, nel 2009, si avvicina all’universo dell’estremismo islamico. Appena sbarca in Tanzania viene bloccato dalla polizia all’aeroporto di Dar el Salam insieme a due amici: si teme che i tre possano raggiungere la Somalia e unirsi al gruppo estremista islamico al Shaabab, che in quell’anno ha conquistato quasi tutta la Somalia centromeridionale, inclusi quasi tutti i quartieri della capitale Mogadiscio, grazie anche al nutrito gruppo di jihadisti stranieri arruolatesi nelle sue fila. I tre giovani vengono arrestati e poi espulsi con un volo per Amsterdam. Tornato a Londra, per la prima volta gli agenti dell’MI5, l'intelligence britannica, lo interrogano. Nel 2010 Johnny riesce a trasferirsi in Kuwait: in una delle due occasioni in cui torna a Londra viene arrestato nuovamente: gli prendono le impronte digitali e inseriscono il suo nome nella lista dei potenziali terroristi da tenere sotto controllo.
Poi la fuga in Siria. Ed è in una prigione segreta che i compagni di cella lo chiamano Jihad John. Uscito di prigione si unisce a quel gruppo di miliziani arrivati dalla Gran Bretagna per unirsi all’Isis, soprannominati i «Beatles». Di John si erano perse le tracce a gennaio quando si fece ritrarre mentre decapitava il secondo ostaggio giapponese Kenji Goto, ultima delle sue sette vittime. Il primo fu il 19 agosto 2014 l’americano James Foley, seguito dal connazionale Steve Sotloff, i britannici David Haines e Alahan Henninh, l’americano Peter Kassig e il primo giapponese, Haruna Yukawa.
E ora ci si interroga. Quanti Jihadi John ci sono ancora in Occidente? Quanti sono partiti alla volta per la Siria? Quanti sono rientrati? John faceva parte di quell’armata invisibile - piccola ma non si sa quanto - di jihadisti fai da te. Giovani spesso integrati nella società , che parlano perfettamente la lingua dello Stato europeo dove vivono da tempo. Insospettabili e difficili da identificare, ma impregnati di una propaganda cieca e folle.
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