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Coesione alla prova

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ANALISI

Coesione alla prova

Esattamente 10 anni fa, una serie di attentati in contemporanea in una capitale europea diede il tragico benvenuto all’apertura di un altro vertice del “grandi”. Il 7 luglio 2005, giorno d’inizio del summit di Gleneagles, in Scozia, quattro bombe vennero fatte esplodere nella metropolitana e su un autobus di Londra.

Attentatori suicidi uccisero 52 persone, e ne ferirono altre 700. La risposta dell’allora G-8 fu compatta. Come reagirà agli attentati di Parigi il G-20, un gruppo molto più disomogeneo, nella sua riunione di oggi e domani ad Antalya?

Replicheremo agli attentati, disse il primo ministro britannico Tony Blair, rientrato in Scozia dopo una visita ai luoghi degli attentati, con «la speranza come alternativa all’odio». Gli altri sette (il gruppo comprendeva ancora la Russia, ora espulsa per la crisi ucraina) sottoscrissero convinti la sua dichiarazione.

La scelta fu di mettere mano alle cause remote degli attentati, nella convinzione che la riduzione della povertà avrebbe tolto la linfa vitale al terrorismo. Il G-8 raddoppiò gli aiuti all’Africa e decretò la cancellazione del debito dei Paesi più poveri del mondo. Non siamo come loro, sembrava essere il messaggio principale. Per la prima volta, gli otto cooptarono i leader delle cinque principali economie emergenti. Al loro fianco, si schierarono anche i capi di Stato di sette Paesi africani.

Il G-20 è nato anche da quell’embrione, anche se poi c’è voluta la crisi finanziaria globale scoppiata nel 2008 perché prendesse definitivamente forma. A dieci anni da Gleneagles, ci sono seri dubbi se quella risposta, più concentrata sull’economia e meno sul coordinamento dell’antiterrorismo, fu sufficiente. Ma c’è da chiedersi soprattutto se il nuovo foro dei “grandi” abbia le carte in regola per affrontare la sfida di un terrorismo che inoltre dispone ora di un’organizzazione militare che allora non aveva. Dieci anni sembrano essere passati invano.

Il G-20 di Antalya mette assieme un gruppo di Paesi che credono in valori molto più disparati di quelli del vecchio G-7: non a caso la stessa Russia, il supporto della quale tuttavia è indispensabile per una soluzione duratura della crisi siriana, è stata estromessa.

L’Arabia Saudita, per esempio, membro del G-20 a tutti gli effetti nella discussione economica, nella sua veste di produttore dominante di petrolio, ha una filosofia più ambigua e un ruolo meno chiaro nei confronti dell’estremismo islamico. Lo stesso padrone di casa, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ritiene che la lotta al terrorismo debba avere ora la priorità del vertice, ma solo da pochi mesi ne ha fatto una priorità del suo Governo, e sembra averla utilizzata per reprimere i separatisti curdi almeno quanto, se non di più che per combattere l’Isis. Ha l’autorità che ebbe allora Tony Blair per coagulare un consenso che vada al di là delle dichiarazioni di circostanza?

A torto o ragione, gli attentati di Parigi finiscono per intrecciarsi con la discussione sulla crisi dei rifugiati. Un altro fronte sul quale il G-20 appare male attrezzato. Ma può essere l’ultima occasione, per l’organismo che ha dato il meglio di sé nella gestione immediata dell’emergenza finanziaria nel 2009, di dimostrare la propria rilevanza nella governance globale.

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