Come arriva la Jihad nel cuore dell’Europa? Le ambiguità e le contraddizioni della guerra al Califfato appaiono all’improvviso dopo un’ansa del Tigri, oltre le mura di Diyarbakir, capitale del Kurdistan turco. Due casematte dell’Isis crivellate di colpi nel centro della città: per quanto tempo hanno resistito indisturbate senza che il governo turco muovesse un dito? C’è voluto lo spaventoso attentato di Ankara del 10 ottobre, oltre 100 morti, perché l’Isis fosse indicato come un pericolo. Ma con molta, anzi troppa circospezione. I jihadisti sono ancora usati dalla forze di sicurezza per colpire i curdi. A Cizre e Silvan sono comparsi a fianco dei militari uomini con lunghe barbe e giubbetti anti-proiettile che gridavano “Allah è grande”, minacciando di tagliare la gola ai civili.
La Turchia, stato membro della Nato da 60 anni, è un esempio eclatante di come viene manipolata la guerra al Califfato. Nel cuore storico di Diyarbakir, 1,5 milioni di abitanti, il quartiere di Sur è stato sbriciolato dalla forze di sicurezza: oltre ai morti, ne ha fatto le spese anche la cinquecentesca moschea di Fathi Pasha. Da Diyarbakir, con la sua millenaria cinta muraria di basalto nero, si osservano le conseguenze del marasma geopolitico di un‘intera regione percorsa da decenni di instabilità, stravolta dalla disgregazione in Siria e in Iraq, dalle ambizioni di vecchi e nuovi raìs.
Dall’84 nel Kurdistan turco ci sono stati 40mila morti, migliaia di militari e civili uccisi negli attentati del Pkk. Ma la nuova generazione curda rispetto a quelle precedenti oggi affronta anche un’altra guerra: sono gli stessi giovani che si sono arruolati per difendere Kobane dall’Isis e vedono nel Rojava, il Kurdistan siriano, un modello di autogoverno. Una sorta di incubo strategico per la Turchia. Questi stessi curdi, acclamati per la stoica resistenza all’Isis, sono il target dell’aviazione turca che invece di colpire i jihadisti si accanisce contro chi li combatte.
Tutto questo avviene con la benevola complicità dell’Occidente che aiuta i curdi ma anche i loro nemici. Alla vigilia del voto che ha visto il trionfo di Erdogan, gli Stati Uniti hanno fornito bombe intelligenti ad Ankara: i turchi hanno sottolineato che le smart bomb verranno usate contro i curdi del Pkk. Mentre l’Europa tratta con circospezione Erdogan perché ha bisogno di lui per frenare l’ondata dei profughi da Levante.
E il Califfato? I jihadisti, prima che nel 2014 venisse formata un’inefficace coalizione a guida americana, sono stati per quattro anni gli alleati della Turchia, delle monarchie del Golfo ma anche della stessa Francia e degli Usa per tentare di sbalzare dal potere Bashar Assad. I “foreign fighters” tunisini, marocchini, algerini - li abbiamo visti attraversare indisturbati la frontiera turca: i combattenti europei arrivavano con comodi voli turistici ad Hatay e sorseggiavano il té nei bar di Antiochia prima di fare il salto dall’altra parte. Li aspettava Jabat Al Nusra, affiliazione di una declinante Al Qaeda, e molti di loro si sono uniti all’Isis quando sotto la guida di Al Baghdadi ha cominciato l’avanzata in Siria.
Ora alcuni tornano indietro, come un tempo i mujaheddin stranieri tornavano dall’Afghanistan e dal Pakistan per destabilizzare l’Algeria o l’Egitto. Gli europei in Europa, i tunisini per combattere nel loro Paese e compiere attentati o arruolarsi con il Califfato nella Sirte libica, nuovo magnete degli islamici radicali. La Tunisia è stato il Paese che ha fornito il maggior numero di combattenti stranieri all’Isis ma anche i ceceni hanno costituito un contingente formidabile: è contro di loro che hanno combattuto gli Hezbollah libanesi alleati di Assad sulle montagne del Qalamoun.
Il Califfato è la più attrezzata e pericolosa scuola di guerriglia e terrorismo per la terza generazione di jihadisti. Dispone dell’esperienza di due generazioni precedenti: i reduci dell’Afghanistan e della guerra nel 2003 contro l’occupazione americana. L’Isis vanta un equipaggiamento militare di primordine: le armi americane sottratte all’esercito iracheno che si sciolse come neve al sole di fronte all’offensiva dei jihadisti nel 2014 cedendo il controllo di Mosul. Ha anche una direzione strategica qualificata: la sua ascesa è stata resa possibile dalla cooptazione degli ufficiali dell’esercito di Saddam che i jihadisti hanno conosciuto nelle carceri americane in Iraq. Non solo. Il Califfato ha risorse finanziarie importanti: controlla un vasto territorio a cavallo di Siria e Iraq con milioni di persone e lo ha completamente saccheggiato incamerando somme importanti con il contrabbando del petrolio siriano, oltre che dei manufatti archeologici. Poi ci sono i finanziamenti delle organizzazioni arabe e musulmane che sostengono da sempre il radicalismo islamico sunnita in funzione anti-sciita.
A differenza di Al Qaeda ospitata prima in Afghanistan dai talebani e poi nei santuari dell’Hadramaut in Yemen, l’Isis controlla direttamente il territorio, con un salto di qualità notevole rispetto a Osama bin Laden. Non ha più bisogno di attentati spettacolari ma irripetibili come l’11 settembre: sa usare kamikaze e terroristi per replicare la sindrome della paura.
Nella guerra all’Isis gli alleati arabi dell’Occidente non so meno ambigui della Turchia. L’aviazione saudita, e degli Emirati si è ritirata dalla coalizione, come indicava recentemente il New York Times: i raid adesso li fanno contro la guerriglia sciita degli Houthi in Yemen, che si sta trasformando per le petro-monarchie in una sorta di Vietnam del Golfo. Queste dinastie familiari autocratiche e illiberali temono la concorrenza del Califfato ma in realtà lo hanno foraggiato ideologicamente finanziando per anni le scuole coraniche più estremiste e un esercito di 40mila Imam tra i più radicali del mondo islamico ai quali i musulmani moderati e l’Occidente devono la più gigantesca campagna di odio e ostilità nei confronti non di una religione ma dell’umanità dai tempi della Germania nazista. Ma con loro ci ostiniamo a fare affari e gli vendiamo potenti arsenali mentre teniamo sotto sanzioni la Russia, l’Iran e nella lista nera gli Hezbollah libanesi, cioè gli alleati di Assad che combattono sul campo i jihadisti.
Ma c’è una ragione di fondo per queste ambiguità. La strategia americana, anche dopo l’intesa sul nucleare con Teheran, non è cambiata dai tempi della guerra Iran-Iraq degli anni ’80: gli Usa non vogliono che vincano né le potenze sunnite né quelle sciite. E l’Europa, priva comunque di una politica estera e di difesa comune, una sua strategia non ce l’ha mai avuta.
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