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Quel legame di Parigi con le ex colonie

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Europa

Quel legame di Parigi con le ex colonie

  • –Roberto Bongiorni

È inevitabile pensare alla Francia. Inevitabile tornare con la memoria ai giorni in cui la bandiera jihadista sventolava sui tetti di Timbuctu. Ripensare alle migliaia di manoscritti antichi bruciati dalla furia iconoclasta degli estremisti e ai due reporter di Radio France International brutalmente sgozzati lungo la strada per Tinessako. Alle truppe speciali francesi che rastrellavano le regioni desertiche a caccia di estremisti. Ecco perché il commando di 10 jihadisti armati fino ai denti che, al grido di «Allahu Akbar» («Allah è grande»), ha fatto incursione nell’Hotel Radisson, nella capitale del Mali, non può non far pensare all’ennesima ritorsione contro la Francia.

Minacciata dall’espansione cinese, ma anche da quella di Paesi emergenti come India, Brasile e Turchia, decisi ad accaparrarsi le risorse africane, la Francia continua ad esercitare una forte influenza in molti Stati africani. Un ruolo che è determinata a difendere con le unghie. Françafrique; con questo termine si usa descrivere quelle complesse – e non sempre trasparenti- relazioni tra la Francia e le sue ex colonie africane. Sono interessi geopolitici ma anche economici. Perché in gioco ci sono risorse naturali e materie prime. L’uranio del Niger e della Repubblica Centroafricana, il petrolio del Gabon e del Ciad. Le risorse agricole di altri Paesi, i metalli della Guinea Conakry.

Quando lo ha ritenuto necessario, Parigi non ha mai esitato a intervenire militarmente nelle sue ex colonie, alcune delle quali sembra considerare ancora dei meri protettorati. È accaduto in Costa d’Avorio durante la sanguinosa guerra civile che sconvolse il Paese del cacao tra il 2002 e il 2004. Per cercare di riportare la calma l’Onu inviò i suoi Caschi blu affiancati dalla missione francese Licorne, composta da quasi 5mila soldati. Poi è stata la volta del Ciad, nel 2006, quando i caccia francesi bombardarono almeno due località per fermare l’avanzata dai ribelli del Fuc, che puntavano a espugnare anche la capitale N’Djamena e rovesciare il controverso presidente Idriss Deby. Certo non un capo di Stato paladino della democrazia.

Poi, nel febbraio del 2011, Parigi è stata capofila della missione internazionale in Libia contro Muammar Gheddafi. E in quell’anno i militari francesi partecipano nuovamente in Costa d’Avorio all’ultima offensiva catturando l’ormai indesiderato presidente uscente, Laurent Gbagbo.

Per meglio comprendere l’intervento francese in Mali occorre tornare indietro ai tempi della guerra contro Gheddafi. Quando insieme al crollo del regime libico un esercito di miliziani Tuareg al soldo dell’ex rais ritornò in Mali e Niger. Nell’aprile 2012, il Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad (Mnla), composto da quei Tuareg di matrice non radicale, prese il controllo delle principali città e dichiarò unilateralmente l’indipendenza dell’Azawad, la parte settentrionale del Paese. Il sogno durò meno di due mesi. Perché le truppe jihadiste, Ansar Dine, il famigerato movimento Mujao e l’ancor più temibile al-Qaeda nel Maghreb islamico estromisero i ribelli dell’Mlns. La giunta al potere in Mali, che aveva conquistato Bamako nel 2012 con un colpo di Stato, sembrava impotente. Scattò l’Operazione Serval, una forza internazionale intervenuta su mandato Onu, per ristabilire la sovranità del Mali sui territori sahariani settentrionali. La Francia inviò migliaia di soldati. E riuscirono a riconquistare le città, infliggendo perdite ingenti alle forze jihadiste, che tuttavia si nascondono ancora oggi in aree desertiche.

L’obiettivo della missione francese in Mali era respingere l’avanzata dei jihadisti in un’area del mondo dove Parigi esercita una forte influenza politica. Ma è forse ingenuo illudersi che l’intervento sia del tutto svincolato da un altro obiettivo, più nell’ombra, ma non meno importante: proteggere gli interessi economici della Francia. In primo luogo l’uranio del vicino Niger. Parigi non può permettersi di perderlo. Perché la Francia ricava quasi l’80% della sua produzione di elettricità dall’uranio. Nessun altro Paese al mondo presenta un rapporto così “intenzionalmente” sbilanciato. Grazie alle sue 58 centrali nucleari, e al costo relativamente basso di produzione, è divenuta il maggior esportatore mondiale di energia elettrica. E quando entrerà a pieno regime la gigantesca miniera di uranio di Imuraen, sviluppata dal colosso minerario francese Areva, chi ne beneficerà sarà soprattutto la Francia. E il Niger passerà dunque da quarto a secondo fornitore di uranio della Francia.

Burkina-Faso, Mali, Mauritania, Niger, Ciad. In questi Paesi i 3.500 miliari francesi della operazione Barkhane stanno affiancando i 6mila soldati della Minusma, provenienti da 11 Paesi africani nel tentativo di sostenere le forze governative contro i jihadisti. E in questi Paesi la Francia è ormai un acerrimo nemico di questi spietati movimenti estremisti.

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