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Se l’Europa di Schengen è in coma

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l’analisi

Se l’Europa di Schengen è in coma

«Il fenomeno rifugiati in futuro è destinato a occuparci molto più della Grecia e della stabilità dell’euro». Non poteva essere più profetica Angela Merkel quando a fine agosto lanciò l’allarme in Europa, accompagnandolo con la scelta unilaterale di aprire le porte ai profughi siriani: gesto generoso ma politicamente inconsulto.

l vaticinio di sicuro non prevedeva che, solo tre mesi dopo, il cancelliere sarebbe inciampato nella peggior crisi politica della sua brillante carriera: poltrona vacillante a Berlino, leadership europea offuscata quando non apertamente contestata nell’Unione. Due amare prémière parallele.

Non prevedeva nemmeno che, scampato in luglio il pericolo Grexit e contestuale fragilizzazione dell’euro, la stessa minaccia si sarebbe riproposta oggi nel nuovo formato Schengen , lo spazio senza frontiere né passaporti per i viaggiatori europei. Conquista storica per l’Europa, come la moneta unica. «Senza Schengen l’euro non può esistere», ha appena ricordato all’europarlamento Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione Ue.

La sospensione o l’espulsione della sola Grecia avrebbe effetti comunque devastanti per l’immagine, la credibilità e l’irreversibilità della costruzione europea. Allora perché non sospendere per due anni l’intero sistema, magari sventolando il provvidenziale alibi greco? L’ipotesi è concreta.

Atene resta l’eterna bestia nera, colpevole in questo caso di rifiutare, pur non essendo in grado di controllare la sua frontiera esterna europea, le profferte di assistenza Ue, che ieri però si è rassegnata ad accettare. Detto questo, l’ordine di Schengen è in coma. E le colpe non sono solo elleniche ma equamente ripartite tra i suoi paesi membri.

Se la Germania con i suoi 80 milioni di abitanti e uno Stato strutturato ed efficiente non riesce nè a gestire i flussi, tanto che da oltre due mesi ha sospeso Schengen, né a metabolizzare senza contraccolpi interni quasi 1 milione di profughi, come potrebbe riuscirci la Grecia, 10 milioni di persone, uno Stato povero e disastrato, frontiere parcellizzate tra le mille isole e isolette dell’Egeo, di fronte alla repentina invasione di 700.000 disperati? La verità è che il muro eretto da Victor Orban in Ungheria ha fatto scandalo ma altrettanto rapidamente ha fatto scuola nell’area Schengen e dintorni. Reticolati e controlli alle frontiere ormai proliferano ovunque: in Austria, Croazia e Slovenia, in Francia, Macedonia, Svezia e Danimarca.

Con o senza sospensioni ufficiali, nei fatti la libertà di Schengen è saltata sulla prima vera grave crisi della sua ventennale esistenza che ne ha messo a nudo, come era già avvenuto con l’euro, i difetti congeniti: malformazione alla nascita per un grande spazio di libera circolazione delle persone, privo però di un parallelo, integrato e coerente spazio di sicurezza interna e controlli alla frontiera comune esterna. Il primo senza il secondo ha fatto corto circuito, come era inevitabile sotto la pressione congiunta della marea inarrestabile dei rifugiati, della lotta al terrorismo, degli attentati, della guerra all’Isis dentro e fuori dall’Ue. Da qui all’assillo generale ma inconfessato del ritorno alle sacre frontiere nazionali il passo è stato brevissimo. Anche se politicamente molto imbarazzante. Persino l’algida e ricca Svezia, il paese dall’accoglienza facilissima e dal welfare state imperturbabile, alla fine si è arresa alla forza di numeri incontenibili riconoscendo la propria sopravvenuta impotenza: ha stretto su arrivi, benefici e ritorni e chiesto di partecipare alla riallocazione per quote come Italia e Grecia.

Poi, con le sue braccia aperte e la violazione deliberata delle regole di Dublino sull’asilo, Merkel ha fatto il resto creando speranze impossibili ma sufficienti ad accelerare in modo esponenziale gli arrivi da Siria e Turchia. Ora i patti con Erdogan e Putin, con il sultano pagato profumatamente per bloccare gli arrivi e con lo zar per sbaragliare il califfato, non si sa ancora a quale prezzo e in quale coalizione internazionale, dovrebbero tamponare anche le troppe crisi laterali che si aggrovigliano intorno a questa tragica emergenza: dalla completa incomunicabilità franco-tedesca al rischio concreto di una vittoria del Front National alla regionali di domenica in Francia.

Fino al probabile rifiuto della Danimarca a rinunciare a una serie di esenzioni dalla cooperazione europea su sicurezza e giustizia in nome della difesa della sovranità nazionale: ennesima prova dei malumori dei popoli quando possono esprimersi per referendum sull’Europa. Ironia vuole che in fatto di sicurezza, giustizia e difesa il Moloch europeo non esista e, a questo punto, forse non esisterà mai. Ma proprio la sua assenza abbandona l’Unione all’indiscussa sovranità del caos attuale. Così però va l’Europa che si sbriciola illudendosi di proteggersi meglio dai pericoli e dalle sfide che l’assediano. L’illusione è falsa. Ma sono tante le false illusioni che hanno scritto la storia.