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Ecco le ricette per sconfiggere l’Isis e la diffusione dei foreign…

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Lotta al terrorismo

Ecco le ricette per sconfiggere l’Isis e la diffusione dei foreign fighters

Fermo immagine degli autori della strage di San Bernardino al controllo passaporti dell’aeroporto di Chicago (Abc News)
Fermo immagine degli autori della strage di San Bernardino al controllo passaporti dell’aeroporto di Chicago (Abc News)

Quando Bobby Sands e altri prigionieri dell'Ira proclamarono lo sciopero della fame, tutta l’Irlanda del Nord ne fu galvanizzata: un'intera comunità si era immedesimata con un gruppo di terroristi in carcere. Parte da qua uno studio dell'International Centre for the study of radicalisation ad political violence (ICSR) sulla de-radicalizzazione collettiva e individuale di un gruppo terroristico, cioè un’analisi su come si può arrivare al disimpegno dei componenti di una sigla che ha intrapreso la lotta armata e fatto proseliti. Come anche Isis che appare sempre più, rivela un documento di 24 pagine in arabo pubblicato dal quotidiano britannico Guardian, un'organizzazione con una strategia pianificata per creare uno Stato, non solo un'orda di fanatici spinti da furore religioso. Nello studio si lavora sui dati che provengono da tre diverse esperienze: Egitto (Egyptian Islamic Group), Algeria (Islamic Salvation Army) e Israele (Hamas) con i primi due casi che danno risultati simili e quello israeliano che ne rivela di peculiari.

I tre casi presi in considerazione sono diversi dall'Isis ma spiegano perché è necessario colpire l’autoproclamato califfato in casa, ovvero come detto all'indomani delle stragi del 13 novembre perché è necessario «schiacciare la testa del serpente». Un'analisi condivisa dal rapporto dell'intelligence commissionato dalla Casa Bianca e reso noto ieri secondo cui l'Isis «non è stato contenuto», è destinato a diffondersi e crescerà numericamente, a meno che non subisca perdite significative in battaglia, cedendo territori in Siria e Iraq. Battaglia che non sarà di terra perché, conferma in queste ore il capo del Pentagono Ash Carter, un eventuale attacco di questo genere «americanizzerebbe» il conflitto.

Vi sono caratteristiche ricorrenti nei casi studiati che mirano al DDR (disarmo, demobilitazione, reintegrazione, tre passaggi necessari alla cessazione della violenza organizzata): è interessante notare che si può avere deradicalizzazione e disimpegno di un gruppo quando c'è una struttura gerarchica e una forte e autorevole leadership come nel caso di Isis. La deradicalizzazione è più difficile nei casi di lupi solitari e invece più probabile nel caso di gerarchia strutturata, è ovviamente necessario che questa gerarchia e i suoi leader vengano catturati e l’ideale è che non vengano uccisi.

Quello che non è stato fatto con Isis e doveva essere fatto subito ma che sia in Iraq sia tantomeno in Siria era difficile solo ipotizzare visto la situazione socio-politica-militare era: 1) individuare particolari cambiamenti o comportamenti delle credenze religiose fra i capi armati dell’organizzazione 2) aprire canali di comunicazione per la deradicalizzazione e disimpegno dei componenti 3) prevedere un mix di sanzioni e incentivi (il proverbiale bastone e la carota) per arrivare alla deradicalizzazione 4) pensare alla reintegrazione dei terroristi solo quando il ritorno alla violenza è improbabile.

Nello studio si mostrano anche le risposte non sempre lineari della repressione. Serve? I risultati confliggono: la repressione ha funzionato in Egitto e in Algeria ma non in Israele anche per la politica dello scambio degli ostaggi. Un capitolo a parte è invece dedicato agli incentivi ai terroristi, sono funzionali alla deradicalizzazione e al disimpegno, nel caso egiziano si concretizzavano in migliori pasti, più visite, più opportunità concessa di interagire con i compagni in cella, persino tour promozionali e pubblicazione di libri, addirittura chi si è comportato bene è stato elogiato per buona condotta in tv. Se come soluzione non è pacifica la promessa di liberare i prigionieri, nel caso algerino ha funzionato la promessa di ricondurli in società offrendogli un lavoro.

Lo studio affronta anche il problema della de-radicalizzazione individuale che prende come riferimenti casi di Afghanistan, Indonesia, Filippine, Arabia Saudita, Singapore e Yemen. Come deradicalizzare i singoli? Con un mix nel programma carcerario ad hoc che consiste in una rieducazione religiosa, interlocutori credibili che possono interagire con i prigionieri e capire i bisogni psicologici e personali, facilitare il passaggio dei prigionieri dall'estremismo alle reti sociali, un sistematico incoraggiamento e impegno verso la famiglia, la comunità e lo stato che riducono le possibilità di ricaduta nella violenza. Quando si parla di strategie antiterrorismo è cruciale anche se difficile – conclude lo studio – riferirsi anche a tutto questo.

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