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In Libia un bottino miliardario per l'Isis

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Lotta al terrorismo

In Libia un bottino miliardario per l'Isis

Se lo misurassimo solo in termini economici il bottino in Libia per il Califfato sarebbe assai maggiore che nel Siraq: 130 miliardi di dollari subito e tre-quattro volte tanto nel caso che un ipotetico (ma non troppo) stato islamico tornasse a esportare gas e oro nero come ai tempi di Gheddafi. Sono stime che sommano la produzione di petrolio con le riserve della Banca centrale e il tesoro del Fondo sovrano libico.

Il bottino è così alto che per impadronirsene le fazioni libiche finora non si erano mai messe d'accordo: soltanto il timore che possa metterci le mani l'Isis adesso spinge i due governi rivali, Tobruk e Tripoli, a firmare il 16 dicembre un'intesa per un governo di unità nazionale, come annunciato dall'inviato dell'Onu Martin Kobler. Ma la Russia alza già la sbarra a soluzioni che ritiene ambigue e illegali.

È anche per questo che domani la Conferenza di Roma sulla Libia con i russi e gli americani è così carica di attese: qui si possono liberare alcune delle più importanti risorse energetiche dell'Africa, il 38% del petrolio del continente, l'11% dei consumi europei di carburante: e per ora a estrarre greggio e gas è soltanto l'Eni, lanciata dall'amministratore delegato De Scalzi sull'asse Sud-Nord. Difficile che le potenze occidentali, ma anche gli Stati del Golfo e l'Egitto, lascino all'Italia, già collegata con il Greenstream, il controllo di questa cassaforte dell'energia con la sua comoda pompa di benzina sulla sponda Sud. Più il petrolio scende di quotazione e più si fa dura la lotta per la concorrenza e i flussi destinati ai Paesi consumatori.

Non illudiamoci che la diplomazia elargisca regali: per tenere le posizioni e recuperare le perdite accusate con la caduta di Gheddafi nel 2011 - 5 miliardi di appalti e commesse - l'Italia dovrà forse mettere il piede a terra, anche soltanto con una missione civile e di addestramento truppe. Naturalmente se lo vorranno gli stessi libici e con assoluta chiarezza di mandato.

Le potenze occidentali finora hanno considerato l'ex colonia come un poligono petrolifero: nel 2011 la Francia, facendo infuriare Mosca, diede il via ai raid contro il raìs libico sorvolando lo spazio aereo italiano senza neppure fare una telefonata e i nostri accordi con Gheddafi, firmati sei mesi prima, diventarono in poche ore carta straccia. L'aiuto militare ai ribelli di Bengasi aveva il profumo inebriante dell'oro nero: il presidente Nicolas Sarkozy, pur di competere con l'Italia, aveva promesso a Gheddafi le ambite centrali nucleari ma il raìs non gli aveva neppure risposto.

Questa è in prospettiva la partita libica che con l'accordo possibile tra i due governi diventa subito scottante. Non è un caso che a Roma il ministro degli Esteri Serghej Lavrov abbia messo le mani avanti: «L'Isis esagera le informazioni sulla sua espansione in Libia per mantenere un'immagine ideologica utile a reclutamento jihadisti».

La realtà è un po' diversa dopo il blitz dell'Isis a Sabrata nell'Ovest tripolino e l'avanzata a Est in Cirenaica verso Agedabia. La Russia ufficialmente non ha preso in considerazione i raid «perché non c'è stata alcuna richiesta da parte del governo libico». Ma i russi sanno perfettamente che non ci sarebbe neppure bisogno di una risoluzione Onu: un eventuale governo di unità nazionale, ammesso che funzioni davvero, può chiedere subito l'intervento dell'EunavFor, con quartier generale a Roma, che ha come obiettivo la caccia ai trafficanti di uomini ma non esclude azioni militari sulla costa. Flotte di droni ma anche caccia francesi e americani già da tempo volano lungo la via Balbia e le coste basse della Sirte, uno sciame che fa presagire qualcosa di più di semplici missioni di routine.

Ai russi tutto questo non piace, come non piacciono perché li ritengono illegali i raid in Siria condotti senza il permesso del governo di Damasco. Lavrov è stato chiaro: in Libia i russi vogliono un governo approvato dai due Parlamenti e non un documento firmato da una maggioranza dei di deputati dei due fronti. Non solo: mentre alcune fazioni puntano a un intervento esterno contro il Califfato, altre sono contrarie perché può rafforzare i jihadisti e spingere i giovani verso l'estremismo.

Ma ancora più irritanti dei litigi libici sono le trame delle potenze arabe e musulmane. Questi sono «i pompieri incendiari» che dicono di voler stabilizzare il Paese e sponsorizzano le loro fazioni favorite: l'Egitto, pur alleato dell'Italia, manovra in Cirenaica con il generale Khalifa Haftar, il Qatar seduce con dollari sonanti gli islamisti più radicali di Tripoli, gli Emirati, anche loro tra i nostri clienti importanti, si sono persino comprati il precedente mediatore dell'Onu Bernardino Leòn per appoggiare Tobruk; senza contare la Turchia, che dalla Siria ha rispedito i jihadisti libici a fare la guerra santa in casa dove alla Sirte si sono alleati con gli ex gheddafiani, alla stessa stregua di quanto accaduto con l'accordo tra il Califfato e gli ufficiali baathisti iracheni. Attirati nella trappola dell'Isis questi apprendisti stregoni non si fermano, sicuri che cederemo sempre al fascino dei loro petrodollari.

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