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Parigi, paura un anno dopo Charlie

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Parigi, paura un anno dopo Charlie

  • –Marco Moussanet

PARIGI

Ieri, anniversario della strage di Charlie Hebdo, la tensione a Parigi era altissima. La polizia aveva i nervi a fior di pelle. Soprattutto nelle zone della città ritenute più “sensibili”. Come alla Goutte d’Or, quartiere Nord della capitale, popolare, multietnico (il 25% degli abitanti, in larga parte maghrebini, non ha la nazionalità francese) e a forte presenza musulmana (le due moschee sono sempre strapiene). In quel 18° arrondissement dove, secondo la rivendicazione dell’Isis, avrebbe dovuto verificarsi uno degli attacchi del 13 novembre.

Verso le 11 e 30 - cioè più o meno alla stessa ora in cui un anno fa i fratelli Chérif e Said Kouachi avevano fatto irruzione nella sede del settimanale satirico, ammazzando a sangue freddo 12 persone – un uomo corre verso i poliziotti di guardia al commissariato di zona, al numero 34 della Rue de la Goutte d’Or, a due passi dall’affollatissimo Boulevard Barbès e dalla chiesa di Saint-Bernard, famosa per essere stata a lungo occupata, a metà degli anni Novanta, da immigrati irregolari. In mano ha una piccola mannaia, in vita qualcosa che assomiglia a una cintura esplosiva, urla «Allah Akbar», Allah è grande. Gli agenti gli gridano di andarsene ma lui continua ad avanzare. I poliziotti sparano: uno, due, tre colpi. L’uomo crolla sul marciapiede. Gravemente ferito, muore pochi minuti dopo, mentre già il quartiere viene blindato dai corpi speciali antiterrorismo.

La cintura esplosiva è finta. Ma la mannaia, finita sopra un canale di scolo, è vera. E addosso all’uomo – poi identificato come un marocchino di vent’anni, le cui impronte digitali erano registrate per un furto commesso due anni fa nel Sud della Francia - viene trovato un foglio con il disegno della bandiera dello Stato islamico e quella che il procuratore della Repubblica di Parigi ha definito in un comunicato «una rivendicazione manoscritta non equivoca in lingua araba». Cioè un messaggio in cui dichiara fedeltà al califfo dell’Isis Al-Baghdadi e di voler «vendicare gli attacchi in Siria».

Ripartono le dirette televisive. In città torna l’incubo del terrorismo. Si temono altri attacchi. Ma fortunatamente si tratta di un episodio isolato. Anche se non è il primo del genere. Il 20 dicembre del 2014, a Joué-les-Tours (nei pressi di Tours, a Ovest della capitale) era successo qualcosa di molto simile: al grido di «Allah Akbar» un uomo era entrato in un commissariato ferendo con un coltello tre poliziotti prima di essere ucciso.

Negli stessi minuti, nel cortile della Prefettura, il presidente François Hollande ricorda i tre agenti ammazzati il 7 e l’8 gennaio dell’anno scorso dai fratelli Kouachi e da Amédy Coulibaly, il terrorista dell’ipermercato kasher, e avverte ancora una volta: «Il terrorismo non ha cessato di far pesare sul nostro Paese una minaccia terribile. Abbiamo ormai a che fare con combattenti agguerriti, abituati a un’estrema violenza, decisi a uccidere anche a prezzo della loro vita».

Conscio delle lacune dell’intelligence, attraverso le cui maglie sono passati gli attentatori di gennaio e di novembre, Hollande chiede «una perfetta concertazione tra polizia, gendarmeria, militari e servizi», affinché ci sia una totale collaborazione e «vengano condivise tutte le informazioni» utili a combattere il terrorismo.

Ricorda che nell’ultimo anno ci sono state 200 interdizioni a lasciare la Francia nei confronti di altrettanti aspiranti alla guerra santa, intenzionati ad andare in Siria per combattere al fianco dell’Isis. Che 50 stranieri sono stati bloccati alle frontiere. E oltre 100 siti internet che facevano l’apologia del terrorismo sono stati chiusi.

Ha infine rivendicato la legittimità e la necessità delle nuove misure che il Governo si accinge a varare: dando alla polizia la possibilità di perquisire bagagli e automobili; ai prefetti di autorizzare perquisizioni domiciliari, anche preventive e notturne; ai poliziotti di usare sempre le armi in caso di pericolo e di trattenere fino a quattro ore dei sospetti per la verifica d’identità (una sorta di mini-fermo in assenza di avvocato); di rendere normali i soggiorni obbligati previsti dallo stato di emergenza.

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