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Egitto, l’economia paralizzata dall’Isis

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Medio Oriente

Egitto, l’economia paralizzata dall’Isis

  • –Ugo Tramballi

L’Egitto è troppo grande. Troppo grande perché possa fallire e per avere l’elasticità necessaria a realizzare le riforme economiche; troppo perché la gente paghi le tasse, lo Stato modernizzi le infrastrutture, crescano le libertà, e anche troppo perché alla fine l’assenza di tutto questo destabilizzi irrimediabilmente il Paese. Quello che ne consegue non è un successo né un tracollo e neanche esattamente una stagnazione. È un limbo permanente.

I connotati del gigantismo possono essere applicati anche all’aggressione terroristica e al modo col quale l’Egitto vi reagisce. Il Paese è troppo grande e troppo complesso perché anche la più determinata delle organizzazioni terroristiche possa pensare di conquistarlo. Ma è anche troppo vasto, la sua capitale e le sue metropoli troppo abitate, la popolazione troppo numerosa e spesso povera, perché lo Stato abbia la capacità di ottenere una vittoria finale sul terrorismo.

Come la guerriglia nella teoria di Mao, l’estremismo islamico nuota nel vasto fiume di una società profondamente religiosa e insoddisfatta. Ma lo Stato egiziano può contare su una storia plurimillenaria di potere centrale, non settario, e nell’altra metà della popolazione – forse di più - orgogliosamente laica. In un’accezione un po’ diversa dalla nostra, tuttavia non così tanto: di uno Stato, cioè, rispettoso dell’Islam ma chiaramente separato dalla moschea. O piuttosto, il contrario: forse oggi unico caso nel Medio Oriente musulmano, in Egitto è lo Stato che governa il clero, fino ad approvarne i sermoni del venerdì e nominare le più alte gerarchie religiose.

Gli attentati di questi mesi dimostrano due aspetti. Il primo, relativamente positivo, è che i terroristi non hanno l’organizzazione né la determinazione mostrata in altri Paesi. Non compiono attentati devastanti e non fanno vittime. Anche il più tragico degli attentati – l’esplosione in volo dell’aereo russo con 224 passeggeri a bordo – è stato compiuto con una bomba piuttosto rudimentale. Nell’attacco di venerdì sera contro l’Hotel Bella Vista di Hurghada - un episodio su cui non esiste ancora un’unica versione chiara dei fatti - le forze dell’ordine sono riuscite subito a fermare il commando, limitando il bilancio a tre turisti feriti.

Tuttavia – e questo è il secondo aspetto - i terroristi sanno colpire metodicamente uno dei gangli economici dell’Egitto: il turismo e la presenza straniera nel Paese, cioè la valuta estera, le cui riserve vitali rimangono pericolosamente basse. L’Isis né i qaidisti hanno la capacità organizzativa per compiere un gesto eclatante come paralizzare il traffico delle merci lungo il Canale di Suez. Ma giocano sul tempo. E il tempo egiziano in qualche modo si è fermato.

L’Egitto all’inizio del 2016 assomiglia molto a quello della fine del 2010, prima delle manifestazioni di piazza Tahrir. Dal punto di vista politico: oggi il Paese è ancora più illiberale di prima e nel nuovo Parlamento il 13% dei deputati sono generali in pensione dell’esercito e della polizia, il 25 uomini d’affari legati al governo.

E soprattutto è simile al passato sul piano economico: il facile credito ottenuto dagli alleati del Golfo – 23 miliardi di dollari negli ultimi due anni – spinge il governo a evitare di compiere i necessari ma dolorosi rimedi strutturali. L’aiuto arabo ha impedito il collasso ma non promuove il rilancio dell’economia: il 90% del bilancio è consumato per le spese correnti, non per le riforme fiscali, le infrastrutture, l’educazione e la sanità. Perfino l’immobile Arabia Saudita, come dimostra il suo ultimo bilancio, ha avviato riforme necessarie che puntano sulla diversificazione dell’economia dal petrolio. L’Egitto, invece, sembra incapace di uscire dalla sua spirale.

Infine, anche la crisi globale fuori dall’Egitto si riflette dentro i suoi confini: la stagnazione cinese ha ridotto il traffico delle merci e nonostante il raddoppio della via d’acqua, dal Canale transitano meno navi di prima.

Ma se la legge fondamentale del caos mediorientale rimane quella del successo dell’Isis solo nei Paesi dalla centralità di governo evanescente o scomparsa, il limbo egiziano è una specie di garanzia: l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi è uno Stato in crisi, non uno Stato fallito.

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