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Attentato di Istanbul: duro colpo all’immagine della Turchia

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L’ANALISI

Attentato di Istanbul: duro colpo all’immagine della Turchia

La conferma di un possibile attentato jihadista è venuta dallo stesso presidente Tayyip Erdogan: il kamikaze è di origine siriana, potrebbe quindi essere legato a gruppi dell'islam radicale, dall'Isis a quelli affiliati ad al-Qaeda.

Ma se queste sono ancora soltanto ipotesi ci sono alcuni dati rilevanti. È il primo attentato che prende di mira Sultanahmet, vicino alla Moschea Blu e a Santa Sofia, il cuore storico e culturale dell'Istanbul ottomana, l'istantanea irrinunciabile di ogni cartolina sul Bosforo, una meta frequentata da turisti di tutto il mondo: si colpisce quindi una delle fonti più importanti dell'economia turca che aveva già registrato l'anno scorso un calo del 30 per cento.

È un duro colpo anche al governo dell'Akp islamico perché la Turchia aspira a dare di sé l'immagine di Paese “sicuro”, classificazione dell'Unione europea che sta negoziando con Ankara per la liberalizzazione di visti ai cittadini turchi in cambio della gestione dei flussi di profughi siriani che nel Paese sarebbero ormai intorno ai due milioni.

La Turchia era già stata presa di mira da attentati clamorosi. A Suruc, al confine con Kobane in Siria, un kamikaze nel luglio scorso aveva fatto un massacro uccidendo 30 persone, militanti di organizzazioni vicine ai curdi; poi il 10 ottobre la strage di Ankara con 100 morti, la più grave nella storia della Turchia moderna, messa a segno vicino alla stazione centrale poco prima dell'inizio della manifestazione organizzata da sindacati a cui partecipavano diversi partiti d'opposizione, primo tra tutti il curdo Hdp. Ma il bersaglio in questo caso era chiaro: l'opposizione curda, i partiti e i movimenti anti-Erdogan.

Questi attentati erano stati attribuiti a elementi jihadisti affiliati all'Isis, in realtà non è mai stata fatta piena luce su autori e mandanti al punto che l'opposizione aveva indicato come responsabili le trame oscure che intercorrono tra il terrorismo e il “deep state”, lo stato profondo, spezzoni di servizi segreti e militari che in Turchia hanno una lunga tradizione di destabilizzazione.

Ma se fosse confermata la pista islamista, per il presidente Erdogan si tratterebbe di un contraccolpo pesante anche alla sua politica di appoggio strisciante all'afflusso di combattenti jihadisti in Siria per abbattere il regime di Bashar Assad. È stato dal confine turco che in questi cinque anni sono affluite le reclute dei gruppi radicali: questa è stata definita “l'autostrada della Jihad”. Soltanto poche ore prima dell'attentato di Istanbul le autorità turche avevano diffuso un dato clamoroso senza indicare il periodo: il fermo o il respingimento di 35mila volontari che si volevano unire al Califfato. Poi Erdogan ha ufficialmente cambiato rotta ma in realtà più che la lotta al Califfato l'esercito turco ha condotto una guerra senza quartiere al movimento curdo Pkk.

L'origine siriana dell'attentatore, se confermata, potrebbe rendere ancora più incandescente il clima sociale di ostilità nei confronti dei profughi siriani: prima accolti con benevolenza e poi diventati un fardello sempre più pesante. Una cosa è certa: l'attentato di Istanbul aumenta l'insicurezza, esaspera l'atmosfera politica e proietta un'altra ombra pesante sulla stabilità di un Paese della Nato immerso nei conflitti del Levante e in piena crisi con la Russia di Putin alle porte di casa.

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