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Borse, se i mercati vogliono «sgonfiare la bolla»

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LIQUIDITÀ E RISCHIO

Borse, se i mercati vogliono «sgonfiare la bolla»

Uno spettro si aggira sugli investimenti in Borsa: gli effetti collaterali di una lunga politica monetaria ultra-espansiva senza politiche economiche adeguate a prevenirne effettivi distorsivi sull’allocazione dei capitali. Azioni, bond, commodities, sono tutti sulla stessa barca: più si sgonfia la caccia ai rendimenti, più si accentua la Caporetto del rischio. Come definire, del resto, la caduta dei tassi americani a 10 anni sotto la soglia del 2%, il volo spiccato dai prezzi dell’oro e dell’argento, il balzo dello yen sul dollaro e persino il sobbalzo dell’1% segnato dall’euro contro il biglietto verde? Per i professionisti si tratta di un processo scontato, quasi ineluttabile nel mediocre contesto macroeconomico mondiale. I mercati hanno la caratteristica di sganciarsi dalle navi che affondano con un tempismo sempre straordinario: e il crollo delle Borse, in questo senso, va interpretato come il calo della scialuppa davanti alla prospettiva di un naufragio legato più agli errori di manovra delle autorità monetarie e dei governi (a cominciare dalla Cina) che al buco nello scafo creato dal crollo dei prezzi petroliferi.

In parole più semplici, dietro il crollo di gran parte degli asset finanziari da Wall Street all’Europa, dalla Russia all’Asia, altro non c’è che il tentativo dei mercati di riallineare i prezzi di Borsa ai livelli in cui dovrebbero trovarsi rispetto all’andamento dell’economia mondiale, dei profitti aziendali e del contesto geopolitico. Questo processo non è una novità per chi investe capitali: le correzioni sono un fenomeno naturale, riequilibrante e salutare per i mercati finanziari. Il vero problema è il timore che né le autorità monetarie né i governi siano in grado di gestire il rientro ordinato dai tassi zero verso la normalità in un contesto geopolitico che costringe le grandi potenze economiche a prendere decisioni importanti non solo sulla base delle proprie esigenze nazionali, ma soprattutto tenendo conto delle distorsioni che provocano o accentuano nelle altre economie mondiali. L’Sos, insomma, non riguarda solo il mancato raggiungimento degli obiettivi di crescita economica e di stabilità finanziaria che erano alla base delle politiche monetarie ultra-espansive.
Ciò che preoccupa i mercati è soprattutto l’assenza di una Cabina di Regia in grado di confrontarsi e gestire il fallout di manovre che hanno fatto volare le borse ma che ora non bastano più. Invece di attribuire il crollo dei listini al calo del petrolio o all’inevitabile fuga degli investitori da un surreale e grottesco mercato finanziario cinese, insomma, sarebbe meglio dire le cose come stanno: il crollo del petrolio è una conseguenza dello stallo economico e dell’assenza di una vera leadership mondiale, non la causa. Attribuire solo al cinismo speculativo la caduta delle Borse è un esercizio inutile e fuorviante.

Se la Bolla della liquidità ha cominciato a sgonfiarsi è perchè le soluzioni attuate dal 2008 sono alla base delle criticità attuali: la liquidità straordinaria e i QE varati dalla Fed hanno rafforzato banche e Borse, ma non c’è chiarezza su modi e tempi del rientro alla normalità; l’Europa ha potuto superare la crisi finanziaria del 2008-2014 grazie alle manovre straordinarie di Mario Draghi, ma sconta il prezzo delle politiche di austerity senza investimenti anti-ciclici e il disagio crescente causato dalla guida egemonica della Germania sulla Ue e sulle politiche di bilancio dei paesi-membri. La Cina, infine, paga il prezzo di una politica monetaria timida e contradditoria, certamente non sufficiente a placare i timori di una crisi di liquidità. Il caso-Cina, per i mercati finanziari, va ben oltre la semplice crisi dell’export: l’economia e la finanza sono minacciate dal calo degli investimenti fissi, dalla stagnazione dei salari e soprattutto dal ritardo nello sviluppo di una classe media in grado di sostenere i consumi interni. Ma per chi investe dall’estero, la vera minaccia per la stabilità finanziaria mondiale viene dal settore bancario: le sofferenze crescono, ma nessuno sa con esattezza quanto pesino realmente nei bilanci bancari. Prestiti-facili a imprese, manager e famiglie e soprattutto le elargizioni all’esercito di “trader-fai-da-te” che investivano in Borsa rappresentano una minaccia presente e concreta per la stabilità finanziaria.

In conclusione, il pressing internazionale sulla Cina dovrebbe includere non solo la stabilità del cambio, ma anche l’avvio di una robusta politica economica che dia sostanza allo stimolo monetario, così da rivitalizzare l’economia reale e la domanda interna. Senza raggiungere questo obiettivo, la Cina rischia di accentuare le tensioni commerciali con Europa e Usa e soprattutto le pressioni deflazionistiche che Fed e Bce tentano di contrastare.

Tutti questi fattori hanno messo in moto la fuga dal rischio e il crollo delle Borse. Per molti economisti, è necessario affrontare con coraggio queste sfide se si vuole scongiurare il rischio di una nuova recessione globale forse peggiore di quella del 2008. Secondo un sondaggio del Wall Street Journal condotto tra l’8 e il 12 gennaio tra i 76 più autorevoli economisti e analisti finanziari, non solo la ripresa americana sarà più debole del previsto, ma la crisi dovrebbe peggiorare nelle economie emergenti: il 53% prevede l’indebolimento, solo il 18% un rafforzamento. Non a caso, le valute e le Borse in Russia, in Asia (Giappone escluso) e in Sud America hanno pagato finora lo scotto maggiore dell’incertezza. Per l’Europa, il quadro è noto: solo il Qe della Bce sta garantendo la tenuta degli investimenti sui Titolo di Stato, ma da solo non basta a contrastare la fuga dal rischio in Borsa e la ripresa dell’economia dell’eurozona. Che cosa intende fare l’Europa per aiutare Draghi? E che cosa intende fare la Germania per dimostrare che la politica europea non è dettata solo dall’imposizione dei propri interessi? La Bce, da sola, non basta più per colmare il vuoto di rappresentatività che attanaglia l’Eurozona: lo scontro sui clandestini, le incertezze sulla difesa degli interessi comuni, i desideri crescenti di un ritorno alla sovrenità monetaria in quesi Paesi stanno pagando di più la mancanza di politiche di sostegno dei redditi, dell’occupazione e di stimolo degli investimenti pubblici, sono sfide da affrontare, ma certamente non come è stata affrontata la crisi della Grecia. Le tensioni sull’Unione bancaria, le paure dei fallimenti nel sistema del credito senza accettare la condivisione europea della garanzia sui depositi, sono avvisaglie di una tempesta in arrivo. Come lo sono del resto le tensioni sulla flessibilità esplose tra il presidente della Commissione Jean Claude Junker e Matteo Renzi.

In questo contesto, è difficile rimproverare ai mercati di aver generato le condizioni di una nuova crisi globale. La liquidità e i tassi a zero senza una crescita dell’economia reale diventa il moltiplicatore della ricerca del rendimento, e quindi della generazione delle bolle speculative. Per spiegare la correzione, gli operatori dicono che la liquidità sta perdendo la sua spinta propulsiva e che la parola d’ordine è ora «back to basics», il ritorno alla realtà. Il primo segnale è stato il crollo del petrolio, il secondo il balzo della volatilità (l’indice Vixx è risalito ieri a livelli da record), il terzo la correzione dei titoli finanziari e industriali, il quarto è stato infine il tonfo dei titoli tecnologici.

Per chi si chiede quanto potrebbe durare questa fase, ci sono due risposte: per la Borsa, l’obiettivo è di togliere agli indici almeno il 20% rispetto ai valori massimi dell’anno scorso (oggi l’S&P 500 è ancora in rialzo del 30% sulla media storica); per gli economisti, durerà finche la risposta alla crisi non arriverà all’economia reale. E soprattutto dalle banche centrali: «Il forte declino dei valori azionari accentuatosi da inizio anno - ha avvisato l’influente economista Martin Feldstein - è un campanello d’allarme sulle vulnerabilità create da troppi anni di politiche monetarie non convenzionali... Tutte le classi di attività sono state gonfiate dalla propensione al rischio generata dall’eccesso di liquidità in assenza di crescita economica». Parlava alla Fed, ovviamente. Ma è bene che anche l’Europa ascolti.

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