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La caduta di Wall Street condiziona le mosse Fed

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La caduta di Wall Street condiziona le mosse Fed

  • –Marco Valsania

NEW YORK

Potrebbe essere, per ora, “un cigno bianco” anziché un “cigno nero”. Una bufera e non un cataclisma, afferma il Wall Street Journal. Ma dopo la carneficina di inizio 2016, il peggior Capodanno della borsa americana, i nervi degli investitori sono scossi. Le piazze statunitensi - con lo Standard & Poor’s 500 caduto dell’8% in due settimane e del 12% dai massimi - avranno un giorno in più per riflettere sui rischi: domani saranno chiusi in osservanza del Martin Luther King Day. Nessuno però può sapere se la pausa porterà con sè più miti consigli oppure comprimerà tensioni pronte a esplodere con ondate di vendite alla riapertura degli scambi di martedì. «Il sentimento dominante è la paura - ha detto Sam Stovall di S&P Capital IQ commentando l’accelerazione delle flessioni venerdì -. In presenza del lungo fine settimana nessuno ha voluto trovarsi esposto». Se è vero, il mercato potrebbe mettersi a caccia di una ridimensionata soglia di stabilità. Oppure no. «Siamo in preda a un mercato ribassista dell’Orso - teme Larry Fink di BlackRock -.È in atto un vasto riesame del rischio». Tra gli investitori sta prendendo anche quota l’ipotesi che la Federal Reserve presto«cambi corso», tornando a tagliare i tassi d’interesse. «Svolterà e aiuterà i mercati» sostiene Mark Grant di Hilltop Securities. Una prospettiva che però appare più sintomo del nervosismo imperante che non interpretazione di prese di posizione della Banca centrale e calibrato esame della loro efficacia.

Gli analisti sottolineano le innegabili differenze tra le cadute odierne e la grande crisi del 2008. Le cause scatenanti della bufera sono spesso meglio comprese - il crollo delle commodities a partire dal petrolio - rispetto a oscuri derivati immobiliari di cui nessuno conosceva composizione e dimensioni. E le condizioni dell’economia e del sistema finanziario statunitense sono più stabili: una ripresa duratura per quanto modesta e banche forzatamente corse ai ripari. I consumi cruciali per la crescita sono sorretti da un indebitamento delle famiglie sceso al 103% dal 130 per cento. Mentre i colossi del credito, i 31 istituti sottoposti a stress test, vantano cuscini di capitale imbottiti da 1.100 miliardi di common equity contro i 459 milioni di allora, un buffer del 12,5% degli asset ponderati per il rischio anzichè del 5,5 per cento.

Ma se ciò potrebbe essere rassicurante, altre differenze lo sono meno. Sul fronte internazionale il debito in dollari delle società non bancarie è lievitato a 9.800 miliardi, quasi raddoppiato dai 5.300 miliardi del 2007, reso ancora meno gestibile dal rafforzamento della divisa Usa e minacciando spirali di default. Di più: l’inedito spettro di un “atterraggio duro” della surriscaldata e super indebitata economia cinese, la seconda al mondo, già perseguita gli operatori, con il sospetto che la vera crescita di Pechino sia crollata al 2 per cento.

L’impatto di un contagio dall’estero non può inoltre essere sottovalutato. L’economia americana fa i conti con un’espansione tuttora sottotono e profitti aziendali sotto pressione, attesi da FactSet a un declino del 5,7% dopo che il 6% delle società dell’S&P 500 ha riportato i bilanci del quarto trimestre 2015. Soprattutto, la capacità di intervento della Fed per arginare le crisi è severamente diminuita. I tassi americani, la sua arma migliore, sono tuttora ai minimi dopo la prima mini-stretta allo 0,25-0,50% in dicembre, lasciando scarsi spazi di manovra salvo azioni non convenzionali di dubbio esito. Anche una sua inversione di marcia, uno stop a graduali strette e un nuovo taglio a zero, potrebbe rivelare incertezza più che determinazione. La vera scommessa della Fed è che economia e mercati americani, dopo le cure degli ultimi anni, sappiano reggere ai colpi di un contagio. Che si trovino davanti a un “cigno bianco” e non nero.

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