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La “maledizione” dei candidati indipendenti alla Casa Bianca

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La “maledizione” dei candidati indipendenti alla Casa Bianca

L'America sogna da sempre il Terzo Candidato. Quel politico che sfida i due partiti della tradizione, il democratico e il repubblicano, per scendere in campo come indipendente. Come outsider capace di scuotere l'establishment, di mobilitare nuovi elettori e strappare il consenso dei vecchi. Fin qui l'identikit dei candidati “di rottura”, che hanno una lunga storia negli Stati Uniti.

Ma dove il sogno e la storia diventano invece una evanescente chimera è all'appuntamento con le urne: in più di una ventina di elezioni, da quando nel 1860 prese forma l'attuale sistema bipartitico nell'era di Abraham Lincoln, indipendenti di belle speranze si sono immancabilmente presentati sotto diverse bandiere e con il medesimo, altrettanto immancabile, risultato. Mai eletti. Mai neppure vicini a essere eletti. A conti fatti solo in nove hanno superato il 5% del voto popolare.
Questa ferrea maledizione dell'indipendente, invocato e perdente, è ciò che fa riflettere e invita alla cautela oggi anche un personaggio del calibro di Michael Bloomberg. Cioè anche chi, all'apparenza, ha un pedigree di successo: ingente fortuna personale per foraggiare le proprie ambizioni (qualche decina di miliardi di dollari), familiarità con entrambi i partiti dei quali in passato ha fatto parte e una lunga esperienza positiva di governo quale pluri-eletto sindaco di New York.

Ma maledizione non è. Raccontare il miraggio del candidato indipendente americano significa, in realtà, semplicemente raccontare le dis-avventure di aspiranti presidenti in un sistema politico ed elettorale che, nonostante crescenti tensioni, frustrazioni e spaccature interne, finora ha premiato il dominio dei due partiti. L'era più recente comprende alcune delle candidature ancora oggi più note: due volte l'imprenditore texano Ross Perot, nel 1992 e nel 1996, che corse da un posizione di centro e di falco anti-deficit; e nel 2.000 invece l'ambientalista liberal e paladino dei consumatori Ralph Nader. Perot riuscì addirittura a conquistare il 19% dei voti in assoluto.
Persino l'exploit di Perot, tuttavia, rimase del tutto platonico in un sistema dove il voto popolare elegge non direttamente il Presidente bensì 538 Grandi Elettori, suddivisi tra i vari stati. È il partito o il candidato che per primo raggiunge una necessaria maggioranza di 270 Grandi Voti ad aggiudicarsi la Casa Bianca. Ed è nella morsa di questi collegi elettorali che rimangono schiacciati gli indipendenti: quasi tutti gli stati mettono in palio simili Super-Seggi non con criteri proporzionali ma con quello dell'asso pigliatutto, chi vince conquista tutti i voti presidenziali. Un processo che avvantaggia le due grandi “macchine” di partito, diffuse su tutto il territorio nazionale, con le loro immense risorse. Da qui nasce anche il paradosso che rende possibile per un candidato ottenere più voti e però perdere la corsa per la Casa Bianca. Nel caso degli indipendenti né Nader né Perot - neppure quest'ultimo con il suo 19% del voto popolare nazionale - ottennero anche soltanto uno dei 270 Grandi Elettori necessari. Perché non riuscirono a conquistare del tutto alcuno stato.

Per trovare un candidato che in grado di aggiudicarsi qualche collegio presidenziale occorre risalire al 1968 e alla campagna lanciata dal segregazionista George Wallace. Con il Paese spaccato sui diritti civili Wallace, pur ottenendo solo il 14% del voto popolare nazionale, vinse in cinque stati meridionali terrorizzati dall'avanzata dei diritti degli afroamericani e intascò così una manciata di Grandi Elettori. La più credibile campagna da indipendente fu invece, agli inizi del secolo scorso, nientemeno che quella di un ex presidente ancora molto popolare: Teddy Roosevelt. Nel 1912, tre anni dopo aver lasciato la presidenza da repubblicano, fondò un proprio partito progressista che si scontrò con i repubblicani e i democratici di allora. Vinse sei stati. Ma alla fine fu ampiamente battuto dal democratico Woodrow Wilson.

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