Se la partita sulla flessibilità, come certifica Angela Merkel senza offrire sponde all’Italia, la si gioca unicamente con la Commissione (e la Germania «ne prende atto»), il percorso da qui a maggio si prospetta per buona parte in salita. L’appuntamento è con il responso definitivo di Bruxelles sulla legge di stabilità. Visto da Berlino, il problema è che esistono diverse “interpretazioni” sulla comunicazione della Commissione Ue del 13 gennaio 2015. Come dire che ogni paese legge la flessibilità a proprio uso e consumo. Quando si entra su questo terreno, la variabile decisiva è tutta politica e non è detto che le dure polemiche delle scorse settimane tra Roma e Bruxelles sortiscano l’effetto sperato. Al pari del riferimento di Renzi all’«accordo politico» che ha condotto all’elezione di Jean-Claude Juncker, di cui farebbe parte proprio il tema della flessibilità. Con quali rischi?
Dato per scontato il via libera all’ulteriore 0,1% di flessibilità chiesto dal Governo in applicazione della clausola sulle riforme (che va ad aggiungersi allo 0,4% già autorizzato), è probabile che alla fine si raggiunga un’intesa (con diversi caveat) anche sullo 0,3% di flessibilità per gli investimenti. Restano sub iudice gli ulteriori 3,3 miliardi di flessibilità che il Governo si è attribuito «motu proprio» con la cosiddetta clausola migranti. Fondi diretti alla sicurezza e alla cultura, con annesso il discusso «bonus musei» ai diciottenni. Una decisione sulla quale la Commissione europea ha già avanzato informalmente dubbi e perplessità. E da Berlino sul punto non è giunta alcuna apertura. In sostanza, per Bruxelles - che tra breve renderà note le sue nuove previsioni macroeconomiche - il punto di riferimento resterebbe ancorato a un deficit 2016 pari al 2,2% del Pil. Per tutta risposta, il Governo con ogni probabilità lascerà inalterata la sua stima (2,4%), nella consapevolezza che l’intera partita si riverserà sulla prossima legge di stabilità. E qui entra in gioco nuovamente il tema delle “interpretazioni” della flessibilità. È su questo punto, più che sul giudizio vero e proprio di Bruxelles relativamente all’impianto su cui poggia la legge di stabilità, che si giocherà la prossima manovra.
Fin d’ora si può ipotizzare che il Governo proverà a invocare nuova flessibilità (per la parte eventualmente non autorizzata quest’anno) e comunque a ricorrere anche nel 2017 all’arma del maggior deficit, senza infrangere il limite massimo del 3% del Pil. Una strada per molti versi obbligata, poiché altrimenti, tra taglio del deficit strutturale (lo 0,5% del Pil) e nuove clausole di salvaguardia da disattivare (15 miliardi solo nel 2017), gran parte della prossima manovra sarebbe già di fatto ipotecata per circa 25 miliardi. Pochissimi margini per interventi diretti a sostenere la domanda interna.
Con questo fardello di partenza, come finanziare l’annunciato taglio dell’Ires, tanto per citare uno degli interventi in cantiere? Il ricorso anche nel 2017 a un maggior deficit nominale rispetto al target programmato (1,1%) potrebbe essere percorribile, a patto che il debito quest’anno cominci la sua traiettoria di discesa dal 132,8 al 131,4%, come previsto dai documenti programmatici del Governo. Scenario realistico con l’attuale livello di bassa inflazione, e in presenza di un Pil che difficilmente centrerà l’1,6% nel 2016 e 2017? Proprio la variabile debito consiglia prudenza nella tattica negoziale con Bruxelles, in procinto peraltro di richiamare nuovamente l’Italia su questo punto decisivo, attraverso l’imminente rapporto sugli squilibri macroeconomici eccessivi.
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