Mondo

Parte la corsa delle elezioni Usa

  • Abbonati
  • Accedi
presidenziali usa 2016

Parte la corsa delle elezioni Usa

Domani si vota finalmente in America, qui in Iowa, con un elettorato che riprende gli umori populisti europei, sia a destra, con il fenomeno Donald Trump, sia a sinistra, dove un “socialista” come Bernie Sanders insidia Hillary Clinton.

Come tradizione, le elezioni americane partono da questo piccolo stato che utilizza i “caucus”, riunioni assembleari, per scegliere i loro favoriti. Qui abbiamo visto in azione Ted Cruz, senatore del Texas, Marco Rubio, senatore della Florida, primi seri rappresentanti presidenziali del voto latino-americano. Abbiamo visto l’elettorato pragmatico delle campagne, delle grandi fattorie bocciare il governatore dell’Ohio John Kasich e favorire a un certo punto, sempre in nome della protesta, un neurochirurgo in pensione. Ma il fenomeno populista, ci dicono i sondaggi, non è solo locale ma sempre più nazionale. Trump è ormai in testa non solo in Iowa ma un po’ in tutti gli stati e Sanders, pur essendo indietro su base nazionale, potrebbe far bene in Iowa e addirittura vincere in New Hampshire.

È inevitabile dunque assimilare Trump al fronte nazionale in Francia, a Viktor Orban con Fidesz in Ungheria, al PiS polacco a Beppe Grillo, ex showman come lui; e Sanders a Podemos o Syriza. Con la fine di un modello di sviluppo e con un patto sociale in difficoltà un po’ dappertutto in occidente, il populismo avanza anche qui, negli Stati Uniti d’America. Con una variante importante: a differenza di quel che succede in Europa, i candidati della protesta corrono “dentro” il partito. La flessibilità del sistema politico americano, che parte dal basso invece che dall’alto, con partiti “leggeri” invece dei partiti “pesanti” europei gestiti da segreterie e vecchi notabili, consente a nuovi protagonisti radicalmente diversi dal vecchio establishment di emergere. Per questo, nel corso di due secoli, i nomi dei partiti in America sono rimasti gli stessi, ma le alleanze, le filosofie e gli approcci sono cambiati radicalmente. E dunque, nonostante alcuni nella leadership del partito repubblicano parlino di spaccatura se dovesse vincere Trump, la spaccatura non ci sarà. Ma una domanda di fondo dobbiamo porcela: quanto cambieranno l’America e la sua politica se uno dei candidati della protesta dovesse vincere la nomination?

L’ultimo grande cambiamento degli allineamenti politici in America lo abbiamo avuto con l’affermazione di Ronald Reagan nel partito repubblicano. Portò una rivoluzione per il mercato e un’onda lunga che condusse alla rifondazione del partito democratico con Bill Clinton e il prevalere del movimento centrista del Democratic Leadership Council. Torniamo dunque all’interrogativo di fondo: fino a che punto Trump o Sanders sono sintomo di un cambiamento più profondo nei partiti? E fino a dove arriveranno?

Partiamo dal Paese: è confuso, scontento. Preoccupato da un’economia che pur crescendo al 2,4% su base annua, come nel 2015, e con un tasso di disoccupazione al 5%, non cancella le difficoltà della classe media; l’americano medio di destra o sinista è preoccupato dall’ascesa della Cina che presto li scavalcherà come prima economia mondiale; dalla Russia di Putin, che fa il bello e il cattivo tempo dall’Ucraina alla Siria, umiliando la leadership americana; dall’Isis che decapita innocenti e riesce ad attaccare a San Bernardino. Ecco, mentre l’establishment di partenza, impersonato da Jeb Bush da una parte e da Hillary Clinton dall’altra continuava ad usare lo stesso noioso linguaggio politico promettendo un corsa noiosa, Trump e Sanders, pur essendo agli antipodi in politica, hanno colto quel nervo esposto dell’opinione pubblica americana. Si sono affermati contro Washington e la convenzione parlando con spontaneità, fuori dalla correttezza politica e dagli schemi. Fino agli estremi di Trump che hanno portato all’insulto dei suoi concorrenti, dei messicani, dei musulmani portandogli però sempre più preferenze. Così dopo essere stati sbertucciati dagli “esperti” come “ridicoli” e senza speranze solo pochi mesi fa, quando fecero il loro annuncio per la corsa elettorale, oggi dimostrano di essere stati avanti a tutti nel capire l’umore dell’elettorato. E soprattutto per Trump, commentatori come Frank Bruni, Nicholas Kristoff e molti altri, continuano a detestarlo, ma ammettono di non aver capito un bel fico secco.

La risposta breve all’interrogativo di fondo, fin dove arriveranno, è che Trump per come sono messe le cose oggi, potrebbe vincere la nomination repubblicana. Per Sanders è molto più difficile, a meno che non riesca a tradurre in un successo nazionale buoni risultati sia in Iowa che in New Hamsphire, dove si voterà il 9 febbraio. Ma è la tedenza di fondo, il populismo strisciante che ha cambiato le cose anche in Europa che non si può ignorare, soprattutto per il partito repubblicano. Trump, con le sue richieste di protezionismo, anatema nel suo partito, diventa polo di attrazione anche per il sindacato da sempre schierato con la sinistra. Il New York Times di ieri diceva che un terzo del voto sindacale potrebbe schierarsi con lui. Ma attira anche il voto trasversale di nuovo sia a destra che a sinistra, dell’”uomo bianco”, di quella componente una volta essenziale del voto americano in declino per le rivoluzioni demografiche nel paese. Oggi dunque, all’avvio del primissimo scontro, una finale Trump-Clinton diventa probabile, quando solo pochi mesi fa era impossibile. Al di là degli schemi, del linguaggio, della convenzione, degli insulti, alla fine gli americani cercano una leadership ispirata e non costruita a tavolino. E chissà, proprio per questo, che fra un mese il quadro non sarà di nuovo drammaticamente cambiato. Magari con l’ingresso di Michael Bloomberg nella corsa elettorale più anomala, stravagante e affascinante da qualche decennio a questa parte .

© Riproduzione riservata