
Parla con le mani, gesticolando neanche fosse italiano. Sfoggia un forte accento popolare di Brooklyn, anche se la carriera l’ha fatta in Vermont. Ha una chioma bianca e arruffata ed è curvo di spalle, unico segno dei suoi 74 anni. Non è veramente neppure un esponente del partito democratico, avendo sempre coltivato la sua immagine indipendente e avendo a lungo anche rifiutato la tessera del partito.
E, fiore all’occhiello, ama dichiararsi socialista democratico senza tema di apparire anacronistico o di offendere i più radicati tabù della politica americana. Eppure - anzi forse proprio per questa sua schiettezza - gli elettori del partito democratico oggi «Feel the Bern», sentono Bernie, o meglio lo ascoltano. Soprattutto i giovani e giovanissimi, le generazioni X e Y, i millennials diventati adulti nel nuovo secolo, molto più di quanto non avessero ascoltato e seguito lo stesso Barack Obama.
Ieri sera Bernie e Hillary si sono scontrati nell’ultimo dibattito prima del voto nel New Hampshire martedì prossimo, contendendosi il manto di vero progressista. Ma i sondaggi danno la misura della presa di Sanders: ha un vantaggio di almeno 20 punti percentuali sulla Clinton, 58% a 38%, nei dati Wall Street Journal/Nbc/Marist. E addirittura del doppio stando a Cnn: 61% a 30 per cento. I dati dell’Iowa hanno già mostrato come il suo pareggio con la grande favorita fosse il risultato di una rivoluzione se non ancora politica almeno generazionale: ha staccato di 70 punti percentuali Hillary tra gli elettori di età compresa tra i 17 e i 29 anni, contro i 43 punti inflitti da Obama alla stessa Hillary nel 2008. Studenti - spesso con ciocche candide in testa in suo onore - e giovani lavoratori. Uomini e donne.
Nel New Hampshire l’appeal, non a caso, è simile: stando a Marist il 76% dei probabili votanti alle primarie democratiche, fra i giovani sotto i 30 anni, si dice intenzionato a votare per il senatore del Vermont contro il 24% che si schiera a fianco di Hillary. Anche il 64% delle donne sotto i 45 anni è con lui. Tra gli indipendenti, vasta categoria in New Hampshire, Sanders schiaccia la rivale 69 a 26 per cento. Altri sondaggi sono ancora più generosi con Sanders: Mass-Lowell ha trovato fino all’87% di giovani tra i 18 e i 29 anni a suo favore, contro appena il 13% della Clinton. Nel 2008 il «Yes we can» di Obama conquistò il 60% degli elettori delle primarie tra i 18 e i 24 anni e la metà di quelli tra i 25 e i 29 anni.
La sfida irrisolta per Sanders è far breccia altrove. Quasi rovesciate sono le posizioni quando i sondaggi si spostano più avanti nell’età. E le comunità afroamericane e ispaniche fedeli al partito democratico promettono alla Clinton un formidabile sostegno agli appuntamenti successivi, la South Carolina e il Nevada il 20 febbraio.
Ma l’appello di Sanders ad una fresca offensiva progressista, fuori dal pragmatismo dei piccoli passi illustrato dalla Clinton, echeggia nelle urne. Forte e semplice nelle sue proposte: sistema sanitario nazionale (che un tempo avrebbe sostenuto anche la Clinton) contro i miglioramenti di una riforma Obamacare che resta troppo cara per ampie fette di ceti medi e bassi. Ritorno al Glass-Steagall Act, alla separazione tra banche e banche d’investimento, contro la difesa dell’attuale Dodd-Frank. Università pubblica gratuita pagata con una imposta sulla speculazione a Wall Street, contro modesti aiuti a ridurre i debiti della rivale. Un salario minimo subito portato a 15 dollari l’ora, senza le mezze misure dei 12 dollari della Clinton. La messa al bando di lobby e grandi finanziatori ai candidati per promuovere l’integrità e risanare la democrazia, contro le ingenti somme inviate da fondi e banche a Hillary e le laute commissioni che ha intascato come speaker da Goldman e simili. La spontaneità della partecipazione di base, contro una delle macchine di partito più oliate del Paese, quella dei Clinton.
E questo con un approccio alla politica solo all’apparenza ingenuo: dismessi come un’illusione da Sanders sono i pragmatismi clintoniani, le riforme ottenute abbassando lo sguardo e grazie a compromessi con le attuali maggioranze repubblicane e i lobbisti. Il vero realismo, a suo dire, è quello di chi si batte oggi per una rivoluzione politica, per una mobilitazione dal basso che produca maggioranze capaci di cambiamento.
La “rivoluzione” di Sanders arriva da lontano. Nato e cresciuto a Brooklyn in una famiglia di origine ebraiche polacche e russe, Sanders dice di aver capito ben presto l’importanza della politica: «Un tale che si chiamava Adolf Hitler vinse un’elezione e 50 milioni persone morirono».
Studia scienze politiche all’Università di Chicago dove si iscrive a organizzazioni di giovani socialisti e prende parte alle grandi battaglie per i diritti civili, tra cui la marcia su Washington di Martin Luther King. Trasferitosi in Vermont, presto decide di correre per la poltrona di sindaco di Burlington, la principale città dello Stato. Sarà sindaco per tre mandati consecutivi guadagnandosi sulla stampa la distinzione di uno tra i migliori primi cittadini del Paese rivitalizzando il centro urbano con progetti ad uso misto. Quando decide di non ricandidarsi guarda a un seggio alla Camera: nel 1990 diventa il primo «dichiarato socialista» eletto in Congresso.
Nel 2006 corre e viene eletto al Senato. Negli anni da parlamentare si batte contro gli sgravi fiscali voluti da George W. Bush per i redditi più alti (organizzando l’ostruzionismo contro la loro conferma con un discorso di otto ore e mezza), per riforme del sistema giudiziario che non penalizzino le minoranze, per i diritti degli omosessuali e contro la guerra in Iraq. Un’agenda che, dimostrando immutata passione, oggi porta nella sua improbabile corsa per la nomination alla Casa Bianca.
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