Se si vuole scorgere qualche indizio sulla direzione della politica monetaria, è meglio lasciar perdere le Borse che, di questi tempi, sono afflitte da altri problemi. Ma sotto l’altrettanto volatile comportamento delle valute e dei Treasury Usa si intravvede una schermaglia tra banche centrali che si fa sempre più rumorosa.
Walter Riolfi
Se Wall Street, venerdì, ha perso quasi il 2%, perché si pensa che 150mila nuovi assunti siano troppo pochi e per questo gli Stati Uniti stiano scivolando verso una nuova recessione, si sbaglia di grosso: quel numero resta nettamente superiore agli 80-90mila nuovi occupati al mese che bastano a stabilizzare a questi buoni livelli il mercato del lavoro. Ma se la borsa americana è scesa, perché i salari sono cresciuti un po’ più del previsto e per questo ripartirà l’inflazione e la Fed sarà costretta ad alzare i tassi d’interesse, sbaglia ancor di più: ci vuole ben altro che un aumento annuo del 2,5% degli stipendi per creare inflazione. Infine, tutta questa attenzione sul numero dei nuovi assunti pare davvero eccessiva, perché il mercato del lavoro è un indicatore ritardato dell’economia (almeno
di 4-6 mesi).
Sappiamo che l’economia sta rallentando, quanto meno da novembre. Ma, sostenere, per questo, che si vada verso una recessione è una di quelle esagerazioni di cui spesso si nutrono i mercati azionari: tutt’al più si tratta di una frenata della crescita in un ciclo economico che si sta rivelando il più tiepido degli ultimi 70 anni. E per giunta pieno d’insidie che la Fed, come le altre banche centrali, hanno ben presenti.
In realtà, mercati un po’ più efficienti, come quello valutario e dei titoli di Stato, non hanno drammatizzato il deludente numero dei nuovi occupati: il dollaro ha recuperato nella seduta di venerdì solo lo 0,6%, dopo aver perso in settimana 4 punti rispetto all’euro. Il rendimento del Treasury a 10 anni è sceso all’1,84%, il minimo da 12 mesi, e quello del titolo a due anni è salito di tre miseri centesimi, ai livelli di fine ottobre, ossia ben prima del ritocco dei tassi Fed di dicembre. In effetti gli investitori non stanno stimando altri rialzi nel corso del 2016: o, meglio, ne ipotizzano uno (con probabilità attorno al 40%) a dicembre. Non è detto che abbiano ragione, per quanto il mercato si sia rivelato in questi anni più attendibile delle stime (i dot plot) degli stessi membri della Fed. Potrebbe stavolta errare per eccesso, poiché non è detto che la banca centrale americana possa decidere nei prossimi mesi, se le cose restassero così, di tagliare i tassi d’interesse, fino a renderli negativi.
Il più grosso cruccio di Janet Yellen dev’essere, di questi tempi, quello d’aver visto il dollaro irrobustirsi su tutte le valute, mentre l’economia Usa dava segni di cedimento, molti dei quali proprio a causa della ridotta competitività della valuta. Malgrado parecchi analisti avessero previsto un dollaro ancor più forte, anche oltre la parità sull’euro, il biglietto verde s’è mosso negli ultimi due mesi tra 1,08 e 1,09, perché altri operatori, con maggior avvedutezza, avevano capito che la Fed non avrebbe mai lasciato alla sola Bce (o alla sola BoJ) la gestione del cambio, In altre parole, se la politica monetaria in Giappone ed eurozona si sta spingendo oltre i limiti accettabili, attraverso quantitative easing e tassi negativi (limiti del resto varcati in precedenza dalla stessa Fed), la banca centrale Usa si troverà costretta a rimodellare la propria politica su quella dei “concorrenti”.
Quale sia il livello ritenuto accettabile per il dollaro in questa fase é difficile dirlo. Si può ipotizzare che la Fed ritenga assai poco conveniente un cambio con l’euro sotto 1,1. Allo stesso modo si può supporre che la Bce non possa accettare un cambio, diciamo, sopra 1,15. Questi livelli ovviamente sono indicativi, poiché le banche centrali ragionano su cambi pesati sul valore degli scambi commerciali. Ma di una cosa si può essere certi: che quando la Fed afferma che ogni decisione sui tassi dipende dai «dati», in quei dati c’è anche la politica monetaria delle banche “concorrenti”. Tanto più se, in mercati così fortemente manipolati, il gioco degli attori va ben oltre le parole e la moral suasion, come s’è visto dieci giorni fa nella sorprendente decisione della BoJ di rendere negativo il suo tasso d’interesse.
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