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Migranti: l’intervento della Nato dimostra l’esigenza di un esercito comune europeo

La Nato invierà navi militari nel mare Egeo per aiutare Grecia e Turchia a combattere le reti criminali che «trafficano» esseri umani, trasferendo migranti e rifugiati in Europa. L’annuncio è di questa mattina e giunge dalla riunione dei ministri dell’Alleanza riuniti a Bruxelles, ma se ne parlava da alcuni giorni, dopo che il presidente americano Obama l’aveva anticipato nel colloquio con il presidente della Repubblica, Mattarella. È una decisione estrema che dimostra non solo quanto sia grave la situazione nel Mediterraneo, ma anche come non sia più rinviabile un concreto passo avanti che porti la Ue a superare la logica della mutua assistenza, fondamento dell’Alleanza atlantica, per andare verso la costituzione di un’entità europea per la difesa comune, a cominciare dalla protezione dei confini esterni, senza dover dipendere dagli Stati Uniti che - peraltro - hanno sempre meno interesse ad occuparsi della sicurezza dell’Europa. E non è un caso che proprio oggi il segretario di Stato, Ash Carter, nella conferenza stampa seguita alla riunione dei ministri Nato, ha sollecitato i partner europei ad aumentare gli investimenti in difesa: gli Stati Uniti «hanno quadruplicato gli investimenti portando a 3,4 miliardi il finanziamento, aumentando il focus sulla deterrenza contro l'aggressione russa» perciò «si aspettano che gli alleati europei facciano lo stesso».

Il mandato alla Mogherini

La Commissione europea ha affidato già da tempo il mandato all’Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza, Federica Mogherini, di definire entro giugno prossimo «una nuova ed ampia strategia europea per la politica estera e la sicurezza» superando quella adottata nel 2003. Diverse ragioni impongono un’accelerazione del progetto: non solo e non tanto la pressione dei flussi migratori gestiti quasi sempre da bande criminali, ma anche la situazione esplosiva nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente, dove diversi Stati sostanzialmente falliti sono nelle mani di gruppi terroristici come l’Isis in grado di colpire nel cuore delle capitali europee. Gli attentati di Parigi nel 2015 ne sono una prova dolorosa e un monito per tutto il vecchio continente. Per non parlare di Vladimir Putin, percepito sempre di più come un pericolo, come dimostrano la vicenda Ucraina e le continue violazioni dello spazio aereo dei paesi vicini.

Ragioni economiche

Ma non sono solo ragioni geopolitiche a spingere verso la costituzione di una forza armata europea. Ci sono solidi motivi economici. In un mondo in cui la spesa militare è cresciuta a ritmi vertiginosi negli ultimi anni, sarebbe velleitario per qualsiasi Stato membro illudersi di poter essere militarmente autosufficiente. Tanto più in una Unione europea alle prese con tagli della spesa pubblica sempre più drastici.

Tra il 2005 e il 2014 la spesa militare nella Ue è diminuita del 9%. A parte gli Stati Uniti, che restano i “top spender” e dove il budget militare è rimasto stabile, altrove gli investimenti in armi ed eserciti sono cresciuti a ritmo incalzante: +97% in Russia, +167% in Cina, +112% in Arabia Saudita, + 39% in India. In Europa, invece, dal 2006 gli investimenti in R&D sono crollati del 30% e le spese di equipaggiamento e R&D non superano i 24mila euro per ciascun soldato contro i 102 mila euro degli Usa. In compenso dilagano duplicazioni e sprechi: gli Stati europei dispongono di poco più di 17mila carri armati di ben 37 tipi diversi, mentre gli Usa ne anno 27.500 ma solo nove modelli. Lo stesso vale per aerei da combattimento e per aerei cisterna. La capacità di intervento rapido di jet ed elicotteri d’attacco o per il trasporto di mezzi e truppe «è inferiore al 50% in molti Stati membri». Eliminare duplicazioni e sprechi, secondo alcuni studi, portebbe risparmi complessivi di oltre 20 miliardi all’anno, con un recupero di efficienza operativa a livelli impensabili con 28 eserciti separati, uno per ogni stato membro come oggi.

Un percorso ad ostacoli

Di difesa comune europea si parla dagli anni ’50. Ma quanta voglia e soprattutto quanta forza hanno in questo momento le istituzioni comunitarie e gli Stati nazionali di andare avanti su questa strada che implica una pesante cessione di sovranità almeno quanto quella che è stata necessaria per la costruzione della moneta unica? Per molti versi, il percorso è già segnato e la costituzione di un corpo militare per la sorveglianza delle frontiere esterne potrebbe essere uno dei primi passi concreti. Ma nessuno si illuda che i progressi possano essere rapidi e senza ostacoli.

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