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Politiche monetarie ancora troppo lente

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Politiche monetarie ancora troppo lente

  • –Riccardo Sorrentino

Cosa fare? Le turbolenze sui mercati, e più ancora le loro cause, fanno sì che gli sguardi siano di nuovo puntati sulla politica monetaria. Le banche centrali però non sembrano voler cedere ai richiami, per non sembrare compiacenti con gli investitori finanziari.

Il discorso di Janet Yellen di ieri è esemplare, sotto questo punto di vista. Il presidente della Fed ha considerato le cause delle turbolenze come shock esogeni, da tener presente solo se dovessero incidere su prezzi e lavoro. Curiosamente, la flessione del petrolio, e delle materie prime in genere, è stata giudicata un fattore negativo ma transitorio per l’inflazione e inequivocabilmente positivo per l’economia. Eppure, come sottolinea Stephen L. Jen di SljMacro Partner, l’indice Pmi manifatturiero, che misura il livello dell’attività, è correlato con le quotazioni delle materie prime, segnalando fino a che punto gli Usa siano oggi esportatori di commodities.

Non diversamente è accaduto per altre banche centrali, a cominciare dalla Bce che non ha voluto tener conto delle aggressive aspettative di mercato sulla sua politica monetaria a dicembre salvo poi essere costretta ad annunciare per marzo una possibile revisione delle proprie scelte che si sono rivelate troppo timide.

Quello che raccontano i mercati non va però sottovalutato. Come ha spiegato qualche giorno fa alla London School of Economics Jaime Caruana, direttore generale della Banca dei regolamenti internazionali (Bri) di Basilea, dalle quotazioni emergono le difficoltà che le economie incontrano nel trovare un nuovo equilibrio; e nessuno può davvero considerarle esogene. Men che meno la Fed.

Molte delle difficoltà delle economie emergenti nascono dal fatto che le aziende si sono molto indebitate in dollari durante la fase ultraespansiva della politica monetaria Usa. Si è calcolato che un deprezzamento del dollaro dell’un per cento abbia generato un aumento trimestrale di 0,6 punti percentuali nei crediti cross-border. Nulla di male, se si fosse trattato di acquistare beni (magari di investimento) in dollari. In realtà una quota stimata nel 23% delle risorse così acquisite è stata tenuta sotto forma di liquidità; e non sempre quel denaro è stato usato per gli investimenti “giusti”. Le ricerche del team Bri guidato da Claudio Borio mostrano che un boom creditizio induce una riallocazione del lavoro verso settori a bassa produttività.

La difficoltà di questa situazione è data dal fatto che questa volta - a differenza che nel passato - i debiti non sono pubblici ma privati. I consueti cuscinetti, le riserve valutarie non possono funzionare appieno perché è difficile farle “passare” dalle banche centrali alle imprese. I timori dei mercati non sono così ingiustificati.

Il boom creditizio si è interrotto con il rialzo del dollaro, a sua volta iniziato in coincidenza con i primi annunci della fine della fase ultraespansiva della politica monetaria Usa, nel 2013. Da agosto in poi la liquidità globale sembra inoltre essersi ridotta e le condizioni finanziarie irrigidite. Poco hanno potuto, a correggere questa tendenza, le politiche ultraespansive - ma forse troppo timide - di Bce e Nippon Ginko.

Quelli che la Fed (e non solo la Fed) considera quindi come fattori esogeni - il rallentamento degli emergenti, la flessione che in parte ne deriva dei prezzi delle materie prime, le turbolenze sui cambi e sui mercati - esogeni non sono. La Bri invoca un maggior coordinamento globale, obiettivo non facile da raggiungere, come è facile immaginare in un mondo dominato da una moneta internazionale che è anche moneta di una superpotenza; e chiede di fare meno affidamento sulle politiche monetarie, indubbiamente sovraccaricate negli ultimi anni. Dagli Stati Uniti, più o meno sulla stessa linea, l’ex governatore Fed Narayana Kocherlakota ha precisato questa idea: i tassi negativi, ha detto, sono una misura appropriata, «ma sono il segno di un fallimento della politica fiscale».

È una frase riferita gli Usa, che però fa subito pensare a Eurolandia - ma anche al Giappone, che invece è stato fiscalmente generoso - e alle polemiche sull’austerity. I mercati però oggi stanno penalizzando proprio i Paesi più indebitati, quelli che hanno avuto poco spazio per politiche espansive e più si sono affidati alle banche centrali. Nella stessa logica, si può aggiungere che il grande rilievo dato alle riforme strutturali dimentica un fatto: i loro risultati saranno evidenti solo con una domanda aggregata piena.

È inevitabile allora - in assenza di alternative - che il discorso ritorni alla politica monetaria: al rialzo dei tassi forse improvvido degli Usa, alla timidezza della Bce, agli stop and go della Nippon Ginko, alle divisioni all’interno della Banca del popolo cinese sul destino dello yuan. Soprattutto, agli occhiali forse non più adeguati con cui guardano all’economia globale.

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