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I Grandi «condannati» a cooperare

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I Grandi «condannati» a cooperare

  • –Ugo Tramballi

Il segnale tangibile di un cambiamento, John Kerry lo aveva offerto pubblicamente una ventina di giorni fa. Al World Economic Forum di Davos il segretario di Stato aveva spiegato che gli Stati Uniti erano pronti a eliminare alcune importanti sanzioni economiche contro la Russia, entro qualche mese. La questione riguardava l’Ucraina. Da un lato il presidente Poroshenko aveva serie difficoltà a fare approvare al parlamento di Kiev alcune importanti riforme costituzionali; dall’altro Vladimir Putin mostrava di adempiere agli accordi di Minsk, riguardo al cessate il fuoco nell’Ucraina orientale.

Ma fra Stati Uniti e Russia, tutto si tiene. La collaborazione e la competizione in Europa orientale non sono separate dall’una e dall’altra nel Levante. C’è una continuità, un legame fra il processo negoziale sull’Ucraina e l’accordo di cessate il fuoco in Siria, annunciato ieri a Monaco di Baviera. L’uno e l’altro problema sono ancora lontani da una soluzione. Ma finalmente appaiono luci fra le ombre profonde.

Tecnicamente gli americani sono ancora lontani dal rinunciare al sistema delle sanzioni alla Russia: insieme alla crisi globale e al crollo del prezzo del petrolio, mettono Putin di fronte a una seria crisi economica, spingendolo a tornare a quell’obiettivo d’integrazione nel sistema globale che Mosca aveva prima della crisi ucraina del 2014. Sono tre anni che in Russia non vengono approvate riforme socio-economiche, palesemente necessarie. Alla conferenza stampa di fine anno, l’unico riferimento di Putin sulla questione era stato di professarsi contrario alla revisione dell’età pensionabile.

Ma politicamente, sulle sanzioni, gli Stati Uniti si stanno avvicinando ai dubbi europei sulla possibile separazione fra il comportamento russo in Ucraina e quello in Medio Oriente: in sostanza, ha senso mantenere intatte le sanzioni in Europa mentre la Russia è un partner in Siria e nella lotta all’Isis? A questa considerazione se ne aggiunge un’altra, comune: non serve a nessuno una Russia che precipiti in una grave crisi economica. Una successione democratica a Vladimir Putin, continua a restare altamente improbabile.

Partner, non alleato. Come dice Aexander Baunov del Moscow Center dell’istituto Carnegie, la Russia «sta cercando di inserirsi nel nuovo ordine globale dove le nazioni potenti fanno accordi, si uniscono ad alleanze di breve durata e stabiliscono sfere d’influenza». È il realismo del mondo di oggi. Anche nei lunghi decenni della Guerra fredda, Usa e Urss hanno avuto periodi di disgelo e di collaborazione. Questa non è più la Guerra fredda, anche se negoziando l’accordo di Monaco di Baviera, Stati Uniti e Russia in fondo stanno facendo il loro lavoro come ai tempi della Guerra Fredda: sono alla guida di due fronti regionali opposti, mettono in riga i loro alleati riottosi – almeno la maggior parte di loro –, impongono il cessate il fuoco e, in un alternarsi di collaborazione e competizione, cercano insieme una via d’uscita a un conflitto che è nel loro interesse globale veder finire.

In fondo anche gli indisciplinati alleati si aspettano che russi e americani facciano il loro mestiere, come nelle fasi invece negative della Guerra fredda: vogliono essere armati nel migliore dei modi (come i sauditi che con le armi americane conducono una guerra devastante e fallimentare nello Yemen) ed essere sostenuti nelle loro ambizioni regionali. Spesso ci soffermiamo sulle incertezze di Barack Obama sull’uso della forza e sulla brutalità dell’intervento militare russo in Siria. I problemi veri del Medio Oriente sono invece il fallimento dell’idea di stato nel mondo arabo, l’espansionismo da XIX secolo degli iraniani e dei turchi, l’irrisolto rapporto fra politica e religione, la totale assenza dell’arma dell’inclusione politica e del compromesso dei governi e delle milizie in campo.

L’offensiva governativa su Aleppo, spalleggiata dai russi ha tutta l’aria di essere un esempio di competizione fra Mosca e Washington. Ma fra i bombardamenti e la spaventosa emergenza umanitaria, si possono scorgere anche segni di collaborazione. Non avrebbe senso, altrimenti, il voto favorevole russo alla risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza Onu del 18 dicembre, sostenuta dagli Stati Uniti. È la risoluzione che definisce il processo di pace in Siria.

Appoggiando l’offensiva militare su Aleppo, più che riconquistare la Siria, i russi stanno contribuendo a rafforzare l’enclave governativa. E più che mantenere al potere Assad, Putin non vuole che un regime sia sostituito con la forza come in Libia, e che un dittatore sia arresto e processato all’Aia. Ciò che sta facendo la Russia è quello che gli israeliani sostengono dall’inizio della guerra civile: che una Siria unitaria come quella che conoscevamo, non ci sarà più. È il prezzo della pace, se e quando ne verrà raggiunta una.

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