
CIUDAD JUAREZ - Non si ottiene sicurezza semplicemente imprigionando, non bisogna cadere in questo “inganno sociale”. Francesco - nell'ultimo giorno del suo viaggio in Messico - entra in un carcere nella citta' tra le piu' pericolose al mondo per numero di omidici. E lo dice senza timori: «Già abbiamo perso diversi decenni pensando e credendo che tutto si risolve isolando, separando, incarcerando, togliendosi i problemi di torno, credendo che questi mezzi risolvano veramente i problemi. Ci siamo dimenticati di concentrarci su quella che realmente dev'essere la nostra preoccupazione: la vita delle persone, quella delle loro famiglie, quella di coloro che pure hanno sofferto a causa di questo giro vizioso della violenza».
Il carcere e' il «Centro de Readaptacion Social estatal n. 3», dove scontano al pena circa tremila detenuti. La prigione fa parte di un progetto di riqualificazione degli istituti di pena della Stato di Chihuahua che ha ottenuto un accreditamento per il rispetto degli standard internazionali in materia carceraria. Nella cappella dell'istituto assistono al suo discorso in 700, Bergoglio ne saluta personalmente una cinquantina.
«La sua presenza è un richiamo a tutti coloro che hanno perso la speranza della nostra riabilitazione e a quelli che hanno dimenticato che qui ci sono esseri umani» dice un detenuto.
Francesco parla di misericordia nell'anno giubilare (tutte le porte delle prigioni sono “porte sante”, per sua decisione), ma anche un «reinserimento sociale» che abbia inizio fuori dal carcere: «Chi ha sofferto profondamente il dolore e, potremmo dire, “ha sperimentato l'inferno” può diventare un profeta nella società. Lavorate perché questa società che usa e getta non continui a mietere vittime».
Ecco perché, aggiunge il Papa nel suo discorso, «le carceri sono un sintomo di come stiamo come società, in molti casi sono un sintomo di silenzi e omissioni provocate dalla cultura dello scarto. Sono un sintomo di una cultura che ha smesso di scommettere sulla vita; di una società che è andata abbandonando i suoi figli». Il reinserimento o la riabilitazione cominciano «creando un sistema che potremmo chiamare di salute sociale, vale a dire, una società che cerchi di non ammalarsi inquinando le relazioni nel quartiere, nelle scuole, nelle piazze, nelle vie, nelle abitazioni, in tutto lo spettro sociale. Un sistema di salute sociale che faccia in modo di generare una cultura che sia efficace e che cerchi di prevenire quelle situazioni, quelle vie che finiscono per ferire e deteriorare il tessuto sociale». Ma talvolta appare che «le carceri si propongano di mettere le persone in condizione di continuare a commettere delitti, più che a promuovere processi di riabilitazione che permettano di far fronte ai problemi sociali, psicologici e familiari che hanno portato una persona ad un determinato atteggiamento. Il problema della sicurezza non si risolve solamente incarcerando, ma è un appello a intervenire per affrontare le cause strutturali e culturali dell'insicurezza che colpiscono l'intero tessuto sociale».
Quindi il reinserimento sociale «inizia con la frequenza alla scuola di tutti i nostri figli e con un lavoro degno per le loro famiglie, creando spazi pubblici per il tempo libero e la ricreazione, abilitando le istanze di partecipazione civica, i servizi sanitari, l'accesso ai servizi di base».
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