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Cameron: referendum il 23 giugno

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Europa

Cameron: referendum il 23 giugno

  • –Leonardo Maisano

Londra

«La Gran Bretagna sarà più sicura, più forte, più ricca rimanendo in un’Unione europea riformata». Con queste parole pronunciate sulla porta del numero 10 di Downing street, David Cameron s’è rivolto al suo popolo, dopo aver incrociato le lame per almeno due ore con i ministri di un esecutivo spaccato, riunito in consiglio straordinario di sabato, come accadde, unico precedente che si ricordi, durante la guerra delle Falklands. S’è concluso così il primo atto di uno straordinario azzardo politico, avviato tre anni fa, formalizzato l’altra notte a Bruxelles con un accordo Londra-Ue che il premier sosterrà con il «cuore e con l’anima» nei quattro mesi di campagna referendaria destinati a concludersi giovedì 23 giugno quando decine di milioni di britannici andranno alle urne per dire “sì” o “no” alla partecipazione all’Unione. L’avvio del secondo e finale atto della “battaglia per la Gran Bretagna” che David Cameron dice di comandare ha coinciso proprio con l’annuncio della data della consultazione e il conseguente “liberi tutti” concesso dal premier ai suoi ministri. Potranno fare campagna a favore o contro l’adesione all’Unione sulla base delle nuove intese che assicurano a Londra l’ambita condizione di partner speciale. Nonostante l’importante appoggio pro-Ue del ministro degli Interni Theresa May, una mezza dozzina fra ministri di primo livello e sottosegretari hanno già fatto sapere di non essere soddisfatti dall’accordo e di volersi battere per Brexit. Li guida virtualmente una delle teste più lucide del partito conservatore, Michael Gove euroscettico di grande ingegno, oggi ministro della Giustizia. Con lui si sono schierati Ian Duncan Smith responsabile di Lavoro e Pensioni, Chris Grayling alla testa dei Rapporti con il parlamento, John Whittingdale numero uno del dicastero per la Cultura, e qualche junior minister di calibro.

Resta silenzioso il sindaco uscente di Londra Boris Johnson. Le voci raccolte nel suo entourage suggeriscono che già oggi sia pronto a rompere gli indugi, annunciando da che parte intende collocarsi. Il suo posizionamento è essenziale per valutare le chance che ha davvero David Cameron di convincere un Paese che conta fra i “decisi” il 52% a favore di Brexit e il 48% a favore dell’Unione, ma che galleggia ancora su milioni di incerti. Boris Johnson è figura carismatica, capace di toccare la sensibilità profonda di un popolo che all’essenza della ”britishness” non intende rinunciare. E Boris ne incarna tratti assolutamente peculiari. La coerenza politica suggerisce che si schieri per Brexit. Letta la bozza d’accordo circolata il 2 febbraio, Johnson ebbe parole fredde, sostenendo che era necessario «fare di più». Rispetto a quel draft agreement, in realtà, David Cameron, ha rinculato, cedendo pezzi non secondari alle istanze dei Paesi dell’Est e ai grandi partner preoccupati che Londra potesse insinuarsi nel codice unico di regolamentazione bancaria, e non solo, per garantire un vantaggio competitivo alla City. Missione fallita, sotto questo aspetto e Boris Johnson dovrà considerarlo nel suo giudizio finale. L’unica via di uscita che potrebbe avere è un’intesa con David Cameron per stabilire quella sorta di “corte costituzionale” in un Paese senza costituzione scritta per dare a Londra il diritto all’ultima parola sulla legislazione comune. Cameron si è impegnato a procedere in questo senso e il sindaco uscente potrebbe considerarlo il suo contributo alla sovranità del Regno e di conseguenza scegliere di schierarsi con i favorevoli all’Ue.

In attesa di capire su chi davvero potrà contare e contro chi si dovrà guardare, il premier britannico lucida il meglio della sua mercanzia e vende il deal come fosse svolta epocale. Il significato politico non è affatto secondario, la sostanza delle concessioni è poca cosa, né, come abbiamo sempre sostenuto, poteva essere diversamente. Una tesi che gli europeisti – si fa per dire, naturalmente – vicini al capo del governo contestano. «Se in un negoziato si vuole vincere tutto non si mandando diplomatici, ma carriarmati e bombardieri», ha commentato l’ex ministro Malcolm Rifkind rintuzzando la tesi di chi avrebbe una visione eccessivamente minimalista.

Gli allibratori e soprattutto i mercati dimostrano già di credere al lieto fine la notte del 23 giugno. Secondo Ladbroke le scommesse indicano che gli “ins” hanno il 69% di chance di vincere contro il 31% di chi crede a Brexit. Il pound si schiera con la società di scommesse a dare retta agli ultimi scambi di venerdì, quando alla notizia del “deal done” la valuta di Sua Maestà è schizzata ai massimi delle ultime due settimane contro il dollaro.

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