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Italia, 2mila rimpatri volontari e assistiti

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Medio Oriente

Italia, 2mila rimpatri volontari e assistiti

  • –Marco Ludovico

ROMA

Da settembre 2015 a oggi l’Italia, d’intesa con l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni), ha potuto rimpatriare nei paesi d’origine circa 2mila persone, provenienti soprattutto dall’Africa occidentale. Con un meccanismo ora tutto da sviluppare. Non si tratta dei voli di rimpatrio organizzati dal dipartimento di Ps, diretto da Alessandro Pansa, per riportare i clandestini rintracciati ed espulsi dall’Italia. Procedura, tra l’altro, molto costosa per le casse statali. L’alternativa, già avviata ormai in Niger e, se tutto sarà risolto, anche in Sudan, si chiama «rimpatri volontari assistiti». Invocati e richiamati a più riprese, nei dibattiti a Bruxelles, dal presidente del consiglio, Matteo Renzi, e dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano. Con i rimpatri volontari assistiti i migranti non arrivano in Italia perchè sono stati convinti a tornare indietro dopo essere giunti in una delle ultime tappe del loro viaggio: il Niger, in questo caso.All’atto pratico, il sottosegretario all’Interno Domenico Manzione e il prefetto Mario Morcone hanno seguito il decollo dell’operazione in Niger con l’Oim. Il senso strategico lo spiega Federico Soda, direttore dell’ufficio coordinamento Mediterraneo dell’organizzazione umanitaria: «Il Niger è un paese chiave di transito. Arrivano migranti con i requisiti per la domanda di asilo e di protezione internazionale, ma anche gente di paesi africani in crisi, in cerca di miglior fortuna. La destinazione è quasi sempre la Libia dove prima, in molti, si fermavano. Ora non più, ma spesso restano bloccati in balìa dei trafficanti». Per il dirigente dell’Oim in Niger c’è uno scenario «che diventa potente osservatorio sull’andamento dei flussi e può consentire di anticipare i fenomeni». Tra Niamey, la capitale, e i centri di Agadez e Seguedine, l’Oim nel progetto con il ministero dell’Interno assiste i migranti ma tenta anche di convincerli a desistere, soprattutto quelli che non hanno titoli per la protezione internazionale, davanti a un viaggio disseminato di rischi spesso mortali. Chi si persuade è accompagnato - con un volo o un automezzo, a seconda degli stati d’origine - insieme a un «pacchetto di integrazione e assistenza in loco - aggiunge Soda - affinchè sia motivato a rientrare da dove è fuggito. Anche perchè è ormai indispensabile un investimento dei grandi stati, Europa in primis, nelle nazioni da cui i migranti fuggono». Il flusso migratorio, dunque, viene frenato in Africa, più o meno alla metà del viaggio: una quota considerevole dei 2mila rimpatriati poteva arrivare sulle coste italiane. «Un sistema da sviluppare ora con il Sudan e nell’Africa subsahariana - sottolinea il sottosegretario Manzione - con l’apporto dell’Europa». E Bruxelles, infatti, verso la fine del 2015 si è affiancata a Oim e Italia nel progetto nigerino. Aggiunge Soda: «Da informazioni recenti sappiamo che ora ci sono circa 6mila migranti, giunti in Libia, in grave difficoltà, che vogliono ritornare». Il modello avviato, dunque, può coinvolgere anche loro. «Con un’ulteriore riduzione degli sbarchi» nota Manzione, rientrato l’altro giorno insieme a Morcone proprio dal Sudan. Lo scenario africano, peraltro, è stato analizzato di recente anche nell’indagine conoscitiva sui temi dell’immigrazione svolta dalla commissione Affari costituzionali del Senato, presieduta da Anna Finocchiaro (Pd). Padre Giulio Albanese, missionario comboniano, ha messo in rilievo tra l’altro come «una questione cruciale è quella del debito africano. Non solo è tornato salire, ma il rischio è che molti governi non siano in grado di onorare i propri impegni». Un caso emblematico è quello del Ghana, che fu coinvolto nel «progetto Highly Indebted Poor Countries (Hipc), ad opera del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e della Banca Mondiale (Bm)» per la riduzione del debito. Tanto che «nel 2007 il Ghana fu il primo Paese beneficiario ad affacciarsi sui mercati internazionali, emettendo obbligazioni pari a 750 milioni di dollari». Ma nel 2014 «la moneta locale, il “Ghana cedi”, ha perso il 9 % e - osserva padre Albanese - per ripagare il debito, oggi, il governo di Accra è costretto a svendere i propri asset strategici: acqua, petrolio, elettricità, telefonia, cacao, diamanti».

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