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Voto in Iran, una sfida per cambiare il volto del regime

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prime elezioni dopo la fine delle sanzioni

Voto in Iran, una sfida per cambiare il volto del regime

A Teheran sotto le volte a mosaico della Hosseynieh Ershad vota l'ex ministro degli Esteri Ibrahim Yazdi: è un pezzo di storia della rivoluzione che oggi ha deciso dopo tanti anni di tornare alle urne. «Qualcosa sta per cambiare anche qui in Iran soprattutto dopo il “Barjam”, l'accordo sul nucleare: mi auguro che queste elezioni parlamentari rafforzino il governo del presidente Hassan Rohani e l'apertura della repubblica islamica verso l'esterno», dice Yazdi. Questa moschea dove vota l'anziano ex ministro, più volte finito in carcere o agli arresti domiciliari, è dedicata ad Alì Shariati l'ideologo della rivoluzione del 1979 che morì in esilio a Londra un anno prima della caduta dello Shah: fu proprio Yazdi allora a volare nella capitale britannica per decidere di seppellire il filosofo nel mausoleo di Zeynab a Damasco.

Oggi 55 milioni di iraniani su 80 - il 60% sotto i 35 anni - sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Parlamento e l'Assemblea degli Esperti, l'organo che deciderà la prossima Guida Suprema. Questo è una sorta di referendum sul governo di Hassan Rohani, che nel 2017 avrà il test delle presidenziali, e su chi dovrà nominare il successore di Ali Khamenei, che a 76 anni, di salute malferma, sta preparando la successione. In gioco non ci sono solo le sorti dell'Iran ma del Medio Oriente di cui Teheran, liberata dalle sanzioni dopo l'accordo sul nucleare, è una dei grandi protagonisti della pace e della guerra.

Ancora una volta il voto è una sfida tra il fronte dei moderati e dei riformisti, rappresentato da Rohani, e quello degli ultraconservatori e dei radicali, esponenti dell'ala più rigida del regime e dei Pasdaran, il braccio militare della repubblica islamica. Non è una competizione ad armi pari: migliaia di candidati riformisti per i 290 seggi del Majilis sono stati squalificati dal Consiglio dei Guardiani che ha favorito nettamente lo schieramento opposto. Decisiva sarà anche l'affluenza alle urne per capire se gli elettori riformisti supereranno la delusione per andare a votare candidati moderati ma non del loro schieramento.

Durissimo il giudizio che ha dato oggi l'ex presidente della repubblica e capo dell'Assembla del Discernimento Hashemi Rafsanjani: «Quello che è accaduto ai danni dei riformisti è stata una vera e propria ingiustizia», ha affermato mentre infilava la scheda nelle urne del seggio di Jamaran, a Teheran Nord sotto la cima del Damovand, dove c'è il museo dedicato all'Imam Khomeini, il fondatore della rivoluzione del ‘79. In questo seggio ha votato anche il ministro degli Esteri Javad Zarif, il grande negoziatore dell'accordo sul nucleare.

In apparenza le elezioni non muteranno nulla dentro al sistema, in realtà sta per cominciare una battaglia, neppure troppo sotterranea, per cambiare il volto dell'Iran tra due tendenze in competizione: una che vuole mettere sotto sorveglianza il potere religioso degli ayatollah e quello militare dei Pasdaran, sempre più in ascesa in campo politico ed economico; l'altra, quella attualmente al potere, che vuole imboccare una strada alla “cinese”: liberalizzazione della vita economica e privata ma stretto controllo del sistema sulla politica e la sfera pubblica. In gioco c'è anche una posta stringente perché la Guida Suprema e i Pasdaran hanno in mano quasi due terzi dell'economia di un Paese ricco di petrolio e di gas: è facile capire che la sfida nella teocrazia della repubblica islamica è più vicina al profano che al sacro.

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