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Il nuovo Washington Post ha vinto?

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Il nuovo Washington Post ha vinto?

Quando Jeff Bezos nel 2013 decise di investire 250 milioni di dollari e comprare il Washington Post, subito si pensò a due possibili scenari: i più benevoli sminuirono la decisione, sostenendo che l'amministratore delegato di Amazon aveva solo voglia di giocare con l'editoria e di impegnare una minima parte del suo patrimonio di quasi 60 miliardi di dollari nello storico ma ingrigito quotidiano. Le voci più maligne, invece, sostennero che il miliardario voleva crearsi uno spazio politico. Uno spazio per sé o forse per il suo gruppo. Si parlò di Amazon Post, di mossa furbetta, di future ingerenze nella linea del quotidiano e comunque della fine di un periodo d'oro per il giornale, che salutava così la famiglia Graham, uno degli ultimi editori puri d'America.

Venerdì Donald Trump, ormai noto per i suoi affronti diretti alla stampa, è ritornato a parlare del tema del doppio fine di Bezos. Trump nel corso di una conferenza in Texas, la stessa nella quale ha ricevuto l'appoggio del governatore del New Jersey Chris Christie, ha detto che Bezos usa il Washington Post come uno strumento politico e che quando sarà presidente degli Stati Uniti darà a Bezos «dei problemi, credetemi, grossi problemi». Già lo scorso dicembre il candidato alle primarie del partito repubblicano aveva preso di mira Bezos su Twitter, accusandolo di usare il giornale («che perde milioni di dollari», aveva sottolineato) per pagare meno tasse con Amazon. Bezos quella volta aveva risposto che gli avrebbe riservato un posto su uno dei razzi del suo gruppo aerospaziale, Blue Origin, per mandarlo nello spazio.

Ma uscendo dalla sfida Bezos-Trump - e del vizio di Trump di usare l'attacco come strategia politica - l'arrivo del fondatore di Amazon al Washington Post ha cambiato di molto i meccanismi interni al giornale. Meccanismi che negli anni lo avevano trasformato in una macchina lenta, costosa, che perdeva lettori e aveva una presenza digitale molto limitata. Alla fine di gennaio, nel corso della presentazione della nuova e futuristica sede a cui hanno partecipato Jeff Bezos e il segretario di Stato americano John Kerry, il Washington Post è stato definito come un «gruppo media e tecnologico» dove «i giornalisti lavorano gomito a gomito con sviluppatori rock star»: l'affermazione rappresenta certo un cambio di prospettiva epocale per il giornale del Watergate.

Come si è arrivati a questa trasformazione in così poco tempo? Il quotidiano dopo l'acquisto di Bezos ha iniziato ad abbandonare i vecchi processi da giornale del XX secolo, prendendo come modello i social media e la loro strategia di espansione nel giornalismo. In un'intervista al Wall Street Journal, l'editore e amministratore delegato Fred Ryan (ex chief of staff di Ronald Reagan e fondatore di Politico) ha detto che Bezos è coinvolto attivamente solo nella gestione del prodotto e non nel contenuto che continua a essere indipendente.

Un esempio perfetto del cambiamento in corso al Washington Post è stato descritto in un recente articolo del NiemanLab di Harvard. La sua versione mobile ha appena aggiunto uno strumento, il “Re-Engage”, in grado di suggerire storie alternative ai lettori annoiati, pochi secondi dopo l'apertura di un pezzo. In questo modo si evita che l'utente abbandoni la piattaforma. E ancora il giugno scorso ha presentato Talent Network, una piattaforma attraverso la quale i redattori possono trovare i migliori freelance al mondo e commissionare loro storie o ricevere le loro proposte.

Si tratta di due prodotti studiati dal Red, Research experimentation and development, la divisione di sviluppo e innovazione del quotidiano, voluta da Bezos e pensata come principale leva del cambiamento. E i risultati ci sono, almeno dal punto di vista dei numeri. In soli due anni, nell'ottobre del 2015, è riuscito a superare per la prima volta nella storia il New York Times per numero di utenti attivi mensili: 66,9 milioni contro 65,8 milioni. Ed è testa a testa con BuzzFeed, visto che negli ultimi mesi ha sorpassato i 70 milioni di utenti unici, facendo riferimento ai dati di comScore.

Ma ci sono alcuni osservatori che hanno criticato la cura Bezos. Innanzitutto non sono stati diffusi i dati sugli abbonati digitali, uno degli aspetti fondamentali per definire il successo di un gruppo media: il New York Times ne ha oltre 1 milione, il Wall Street Journal ne ha quasi 900.000. Inoltre il Washington Post talvolta avrebbe messo da parte la qualità per fare spazio alla velocità e all'attività sui social media. Altri lamentano l'eccessiva presenza del mondo Amazon: l'applicazione del Washington Post, ad esempio, è inclusa in tutti i tablet prodotti dal gruppo.

Nonostante le critiche, Bezos ha i giornalisti che fanno il quotidiano ogni giorno dalla sua parte. Tutti i reporter di lunga data e i capi delle varie sezioni sostengono che il miliardario stia facendo un ottimo lavoro. Un elemento non trascurabile. E invece, la rivoluzione digitale di The New Republic voluta dall'ex proprietario Chris Hughes, cofondatore di Facebook, è fallita in parte a causa di una redazione ostile e di strategie poco incisive.
Negli ultimi mesi il lavoro diretto di Bezos è diventato ancora più intenso: pur vivendo a Seattle ha riunioni telefoniche ogni giorno con i vertici del gruppo. Consiglia, propone, ha un obiettivo e non smette di pensarci, soprattutto quando è sotto la doccia, come lui stesso ha ammesso. Uno degli scopi è quello di migliorare la gestione dei clienti e farli diventare fedeli lettori-consumatori, uno dei punti di forza di Amazon. Il fine ultimo, come ha scritto Jim Friedlich di Empirical Media, è quello di trasformare il Washington Post «in un prodotto in cui BuzzFeed incontra Woodward e Bernstein (i giornalisti del Watergate, ndr)». Un buon risultato per un giornale che in 40 anni - dal 1972 al 2012 - si era trasformato da un prodotto in grado di competere con il New York Times, in un quotidiano regionale, che rischiava di diventare un'altra vittima della rivoluzione digitale dei media.

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