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Il SuperTuesday dei Democratici: l’ultima spiaggia di Bernie contro…

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la corsa alla casa bianca

Il SuperTuesday dei Democratici: l’ultima spiaggia di Bernie contro Hillary

Epa
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Il Supermartedì delle primarie allora era lontano e la sua candidatura sembrava, ai più, un miraggio. Ma il primo segno che qualcosa di diverso era nell’aria arrivò la scorsa estate in Minnesota, a sole poche settimane dagli inizi della campagna elettorale. La folla che bloccava la strada ricevette la tipica reazione burbera di Bernie Sanders. Maledette coincidenze, proprio oggi doveva capitare una qualche partita dalle parti del comizio. Sbagliava: quelle centinaia di persone, quasi tutte giovani, non aspettavano una sfida sportiva; erano lì per sfidare l’incredulità del mondo politico americano e dello stesso Sanders. Per ascoltare un 74enne senatore socialista democratico partorito dal minuscolo stato del Vermont e dalle grandi ambizioni presidenziali. La presa popolare di Sanders, da allora, è aumentata fino al successo nelle primarie New Hampshire e ai pareggi di fatto in Iowa e Nevada. Ma, giorno dopo giorno, è emersa anche la dura realtà dei limiti della sua candidatura: la schiacciante sconfitta sofferta in South Carolina, con solo il 26% dei voti contro il 74% di Hillary Clinton, ha mostrato tutta la difficoltà di far breccia e conquistare credibilità in ampie fasce dell’elettorato democratico, a cominciare dalle minoranze etniche e anzitutto da quella afroamericana.

Per Sanders è così ora quel SuperTuesday che sembrava un sogno ad avere oggi il sapore amaro dell’ultima spiaggia. Ha bisogno di fare meglio nei tanti stati meridionali - dalla Georgia all’Alabama, dal Texas al Tennessee - dove le minoranze etniche sono spesso la maggioranza dei votanti democratici e dove Clinton, con i suoi storici legami con le comunità locali, appare adesso nettamente avvantaggiata. E deve assicurarsi al contempo decisive vittorie altrove, dal Massachusetts al Minnesota. Questo sarà indispensabile se vuole mantenere viva non solo una campagna di testimonianza e regionale - volta a pungolare e spingere a sinistra Clinton - ma le chance per una nomination.

Il suo appeal resta, e almeno al momento ha adeguate risorse finanziarie per continuare a testa alta grazie a capillari raccolte di milioni di piccole donazioni via Internet. Si è rivelato un candidato spontaneo, capace di far appello alle speranze di un elettorato democratico inquieto che invoca nuove spinte al cambiamento rimaste insoddisfatte persino dal primo presidente afroamericano Barack Obama. Che ha scarsa pazienza, invece, per argomenti accademici, tradizionale esperienza di governo e promesse di piccoli passi, virtù della Clinton. Ha rimescolato i pronostici con una personale combinazione di modernità e anacronismi, idealismo e pragmatismo. Non è preoccupato di essere all’ultimo grido, neppure di citare la bibbia della diseguaglianza contemporanea scritta da Thomas Piketty. Preferisce la denuncia viscerale dei privilegi e l’invocazione dei diritti sociali, l’ispirazione pratica alle classiche socialdemocrazie scandinave.

Nell’era dei candidati-spettacolo che trasformano in mito le loro storie personali, lui rifugge dai riferimenti biografici. La passione politica, piuttosto, ce l’ha nel sangue: da quando, crescendo in un quartiere popolare ebraico di Brooklyn dal quale ha ereditato un pesante accento, scoprì che nel 1932 «un’elezione in Germania provocò la morte di 50 milioni di persone».

La natura dirompente della sua candidatura ha gettato lo scompiglio non solo tra la leadership del partito democratico ma nell’intellighenzia di sinistra. Economisti del calibro di Paul Krugman e Austen Goolsbee hanno criticato le proposte di Sanders come miraggi controproducenti e dal finanziamento approssimativo, ma è difficile obiettare al disegno di un sistema sanitario nazionale, al college pubblico gratuito e alle energie alternative, in grado di far crescere del 50% le dimensioni del governo federale. Qualcuno, l’ex consigliere di Clinton sulla sanità Kenneth Thorpe, ha stimato che da sola la sanità aggiungerà quasi 30mila miliardi di spesa in dieci anni nonostante i piani di Sanders per aumenti delle tasse sui redditi più alti e sulle imprese, imposte sulla speculazione a Wall Street e un generale incremento per tutti del 2,2 per cento. Ma un gruppo di economisti della University of Massachusetts, guidato da Gerald Friedman, ha risposto che il costo sarebbe invece limitato a 14.500 miliardi e i progetti di Sanders si tradurrebbero in maggior crescita e occupazione e minori poveri e diseguaglianze.

Questo dibattito conta poco per i suoi sostenitori. Sono anzitutto “millennials” - conquistati all'80-85% - comprese le donne tra stupore e a volte rancore del femminismo tradizionale. Non mancano però lavoratori, ceti poveri e medi, con istruzione universitaria e non. La scarna storia personale che passa il filtro della reticenza è foriera di questo appeal. Dopo il liceo pubblico a Brooklyn, Sanders si iscrive a scienze politiche all'Università di Chicago dove per sua ammissione è studente mediocre perché il suo impegno è in politica: organizzazioni di giovani socialisti e campagne per i diritti civili, desegregazione degli pensionati studenteschi e marcia su Washington di Martin Luther King. Trasferitosi in Vermont dopo la laurea, lavora da aiuto infermiere ed è tra i fondatori di una cooperativa di “falegnami creativi”. Presto è però candidato di un piccolo partito nato dal movimento contro la guerra in Vietnam.

Il momento della verità giunge quando corre per la poltrona di sindaco di Burlington, principale città dello stato, sfruttando l’insoddisfazione per il primo cittadino uscente. Vince per 12 voti, il battesimo di quella che negli anni di Reagan viene soprannominata la Repubblica Popolare di Burlington. Sarà sindaco per tre mandati mettendo alla prova una “dottrina” di idealismo pragmatico: tesse gemellaggi con città del Nicaragua sandinista che fanno chiamare i suoi seguaci “Sanderisti”. Ma si guadagna anche la distinzione di uno dei più efficienti primi cittadini del Paese. Risana i conti municipali e rivitalizza il centro urbano con progetti a uso misto coinvolgendo numerose aziende. La sua politica retail include rispondere al telefono ai cittadini nel cuore della notte. Quando decide di non ricandidarsi guarda a un seggio alla Camera: nel 1990 è il primo dichiarato socialista in Congresso. Nel 2006 viene eletto al Senato. Da parlamentare, come indipendente che vota assieme ai democratici, ha fama battagliera, anche troppo stando agli stessi esponenti più liberal del partito quali Barney Frank. Insorge contro il rinnovo degli sgravi fiscali voluti da George W. Bush con un discorso ostruzionista di otto ore e mezza che sarà pubblicato sotto forma di libro. Duella per riforme del sistema giudiziario che non penalizzino le minoranze, per i diritti degli omosessuali e contro la guerra in Iraq. Con gli anni dimostra tuttavia di saper lavorare anche con colleghi e avversari, proponendo puntuali emendamenti - e strappando il titolo di Mr. Emendment - e co-sponsorizzando leggi sui veterani di guerra. Non mancano posizioni controverse a sinistra: conscio di rappresentare uno stato che ama il porto d’armi è poco sanguigno sulle strette nei controlli.

A una festa per la vittoria in New Hampshire, qualche settimana fa, a chi è venuto ad ascoltarlo - Mark, ingegnere, Carl, manovale, Lindsey, assistente scolastica, e tanti altri - regala battute diventate iconiche. Questi risultati, dice, sono “huge”, enormi. La folla gli fa eco, imitando l’accento popolare di Brooklyn che zittisce la “h” e prolunga la “u”. Dà fiato a una domanda di svolta. Ma forse non grande abbastanza perché un burbero 74enne socialdemocratico possa davvero entrare la Casa Bianca.

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