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Il SuperTuesday dei Repubblicani: nel panico per la valanga Trump

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la corsa alla casa bianca

Il SuperTuesday dei Repubblicani: nel panico per la valanga Trump

Reuters
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Paul LePage, governatore repubblicano del Maine, soltanto un paio di settimane fa era all’avanguardia di coloro che dentro al partito cercavano in ogni modo di arrestare l’avanzata di Donald Trump. A un incontro di colleghi aveva invocato un piano collettivo per attaccarlo come un estremista impresentabile. Ma in politica pochi giorni possono fare una grande differenza: ora, alla vigilia del Supermartedì che vede votare assieme undici stati e promette un responso nazionale sulla marcia di Trump, è diventato l’ultimo voltagabbana tra gli esponenti dell’establishment. Ha deciso che Trump può essere «uno dei migliori presidenti di tutti i tempi».

Ultimo perché LePage non è un caso isolato di defezione: Chris Christie, governatore del New Jersey, è il più noto. Kevin McCarthy, deputato e leader della maggioranza alla Camera che ha dichiarato di esser pronto a lavorare con un presidente Trump, è l’autore della dichiarazione più obliqua e influente. Nell’insieme queste diserzioni fotografano un fenomeno traumatico: il costruttore e personalità televisiva, deriso fino a pochi mesi or sono, è diventato il chiaro favorito, voti e delegati alla mano, per la conquista della nomination del partito che fu di Abraham Lincoln, impugnando un populismo di destra che ha mobilitato una inedita coalizione di bianchi (e non solo) poveri emarginati dalla ripresa economica, conservatori disillusi e frange religiose che si sentono tradite dai loro leader.

È il favorito nonostante - e anzi spesso grazie - a uscite a dir poco controverse che ne hanno gonfiato la fama di outsider: dagli insulti agli avversari alle crociate contro gli immigrati messicani e musulmani, da bellicosi disegni militari fino alle citazioni di Benito Mussolini (meglio un giorno da leoni…). Fino al rifiuto di prendere le distanze, nel fine settimana, persino dall’ex leader del Ku Klux Klan della Louisiana David Duke, che l’ha appoggiato.
L’ascesa di Trump è tale che ha scatenato ormai il panico in vetta al partito: fonti repubblicane hanno lasciato filtrare che sono allo studio manovre disperate per unire i rimanenti sfidanti con qualche seguito - Marco Rubio, Ted Cruz, John Kasich, Ben Carson - all’indomani del SuperTuesday, spingendo affinché uno solo resti in gara. Il timore è però che possa essere già troppo tardi, che Trump sia stato sottovalutato troppo a lungo per essere bloccato adesso alle urne.

Non mancano così piani di quasi-golpe alla Convention di luglio, per strappargli delegati in quella sede e negargli un successo finale. Oppure una rottura di tutti i parlamentari repubblicani in massa con il “loro” candidato. Lo spettro, per i leader del Grand Old Party, è che le controversie che oggi gonfiano la sua popolarità lo condannino a una disastrosa sconfitta a novembre, e che questa travolga anche la maggioranza dei seggi conservatori al Congresso e disintegri i repubblicani stessi.

Trump, a 69 anni, ha saputo far leva su una coincidenza di fattori più unici che rari per il suo improbabile exploit. Una crisi epocale del partito repubblicano, ridotto a un’organizzazione sui generis con anime in conflitto tra loro e priva di meccanismi e istituzioni interne - ammettono i suoi stessi esponenti - in grado di mediare e ricomporle. L’inquietudine e la rabbia di ampie fasce dell’elettorato vittima di una ripresa debole e diseguale. E un parco di candidati ufficiali finora parso debole (Rubio) o vecchio (Jeb Bush ritiratosi dopo aver speso senza esito ben 130 milioni di dollari).

È in questo vuoto che Trump ha costruito a lungo indisturbato - la tesi prevalente era che si sarebbe auto-distrutto - un’immagine che va ben al di là della sua influenza effettiva. A New York, patria del suo business, il suo nome compare su numerosi grattacieli e progetti ma da tempo - dagli Settanta e Ottanta quando aveva ereditato dal padre un’attività già di successo legata a programmi di sviluppo sponsorizzati da politici (democratici), è ormai un “marchio” in gran parte vuoto. Non è neppure tra i dieci immobiliaristi più potenti della città stando alle classifiche specializzate. È certo ricco - gira il Paese sul suo aereo personale, un 757 battezzato neanche a dirlo Trump - ma non è esattamente un magnate - Forbes gli dà un patrimonio personale di 4,5 miliardi, ben meno dei dieci dei quali si vanta.

Né è un nome di prestigio nella finanza cittadina: le banche lo ostracizzano da tempo, dopo aver sofferto perdite multimilionarie a causa delle sue bancarotte seriali.
Ma la sua irrequietezza e ambizione hanno radici profonde e spiegano la sua determinazione a farsi strada quando percepisce l’opportunità. Quarto di cinque figli, fu spedito dai genitori in un collegio miliare, la New York Military Academy vicino a West Point, per metterlo in riga. Da lì passò per la Wharton School con una laurea in economia. Entrò nel real estate negli anni Ottanta dei Fuochi delle Vanità e della deregulation reaganiana, di quegli eccessi che si addicono alla sua personalità. In seguito la sua appannata fama di immobiliarista, compresi semi-fallimentari investimenti in casino’ finiti quattro volte in amministrazione controllata tra il 1991 e il 2009, è stata rilanciata dimostrando virtù di grande tenacia dalle avventure sul piccolo schermo, stella di reality show quali The Apprentice. Sui tabloid, intanto, ha sempre mantenuto alto il profilo della sua vita “privata”: tre matrimoni con ex modelle e cinque figli.

In politica aveva già ventilato candidature in passato poi mai scattate ed era finora noto soprattutto per l’eclettismo delle posizioni e la sua battaglia contro Barack Obama, che aveva accusato di non essere nato in America e quindi di non avere diritto alla Casa Bianca. La nuova reincarnazione politica, però, non è stata affatto approssimativa e lasciata al caso. È decollata con una campagna centrata non sui programmi più tradizionali dei conservatori - tasse, governo ridimensionato, aggressiva dottrina coerente di politica estera - bensì su immagini forti e spesso del tutto irrealistiche ma capaci di catturare l’opinione pubblica. Ecco il grande muro contro il Messico, oppure l’impegno «a fare nuovamente grande l’America». Per raffinare la candidatura ha potuto contare su un efficace manager, il 41enne Corey Lewandowsky, che è un veterano di elezioni repubblicane dalla parte degli sfidanti anti-establishment. Lo ingaggiò nel 2014 con un salario di 240.000 dollari ordinandogli, con tipica sfrontatezza, di essere semplicemente il migliore. L’esito è stato oggi uno schiacciasassi elettorale che ha fatto rabbrividire gli intellettuali conservatori: il commentatore moderato David Brooks ha paragonato il fascino di Trump a quello di un supereroe dell’anti-politica, frutto ultimo e pericoloso della disintegrazione di una prassi che vive di dialogo e muore tra gli insulti.

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