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La via obbigata di un conflitto a bassa intensità

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L'ANALISI

La via obbigata di un conflitto a bassa intensità

(Afp)
(Afp)

Poco più di un anno fa la Camera fu chiamata a votare sullo Stato palestinese. Venne presentata una risoluzione a favore del suo riconoscimento e una sostanzialmente contro. Passarono entrambe perché una gran parte dei deputati aveva votato per l'una e l'altra. Alla fine il Pd esultò per il riconoscimento della Palestina e l'ambasciata israeliana ringraziò il Parlamento per non averlo fatto. Nessuno, eccetto i palestinesi, poté dirsi insoddisfatto.

La questione libica non permetterà giochi di prestigio dello stesso genere. Il voto sulla Palestina era un esercizio di retorica: aveva solo un valore ideale, non politico. La Libia è più impellente, più diretta per noi, più drammatica. Ma dai primi segni non sembra che il dibattito stia volando più alto di quanto non sia stato per la Palestina. Molti denunciano che siamo già in guerra, altri che non lo siamo ancora. Il dibattito su un tema così prioritario per la sicurezza nazionale non esce da una dimensione da campagna elettorale permanente nella quale si cercano le cose più forti da dire su Isis e profughi per conquistare consenso popolare, non per risolvere i due problemi.

Il più efficace, come sempre, è Matteo Salvini il cui modello è la provocazione totale di Donald Trump: la Trumpocalypse, come l'ha definita il New York Times. Anche se non è chiaro chi abbia il diritto al copyright fra il leader leghista, l'ungherese Orban, il miliardario di New York o un altro del crescente esercito populista d'Occidente.

Il livello del dibattito nelle primarie repubblicane, certamente peggiore, è una ragione di conforto ma niente di più per affrontare la questione libica. Perché quando si deve cercare una risposta alla domanda sul che fare in quel paese, in Siria, in Iraq, con i profughi o contro l'Isis, il populismo crescente della politica e delle opinioni pubbliche ha un ruolo decisivo. Per questi problemi non esistono soluzioni semplici. La gente, ansiosa, tuttavia le vuole e i populisti offrono risposte immediate.

«L'Italia deve andare in guerra» e «l'Italia non deve andare in guerra» sono i due poli opposti ma simili della sintesi populista sulla Libia. Come non esistessero alternative all'una o all'altra ipotesi. Dopo le lezioni in Iraq e Libia gli occidentali non hanno intenzione di prendere l'iniziativa militare in esclusiva. Barack Obama può essere accusato di tutto ma non di nutrire ambizioni militariste. Per un altro anno ancora la politica non interventista americana non cambierà. Se vincerà, Hillary Clinton darà un'impronta più internazionalista alla sua presidenza, non necessariamente più militarista.

La formula della lotta all'Isis vale per la Libia come per la Siria e l'Iraq: la devono combattere i Paesi della regione con il nostro supporto. La dissoluzione della Libia incapace di formare un governo e le ambiguità degli attori regionali rendono eccezionalmente difficile un intervento militare occidentale. È inimmaginabile che l'Egitto, attivo sponsor della fazione di Tobruk, possa accettare che i Fratelli musulmani abbiano una posizione prominente nel governo di unità nazionale libico: quella stessa fratellanza che solo due anni fa al Cairo il generale al-Sisi aveva represso con inaudita violenza.

Detto questo, l'Isis esiste e non possiamo far finta di credere che sia solo un problema degli altri: se è folle l'idea di un'azione militare senza il consenso del governo libico, quando e se mai ci sarà, sarebbe irresponsabile ignorare la minaccia. Dunque, oltre la retorica guerrafondaia e il suo opposto non interventista, americani, francesi e italiani continueranno a compiere missioni limitate e mirate. Non è una guerra ma un obbligato conflitto a bassa intensità, figlio di questa caotica stagione della geopolitica.

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