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Obama caustico con gli alleati (e non solo)

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Obama caustico con gli alleati (e non solo)

NEW YORK - Barack Obama se la prende con gli alleati inaffidabili. E non sono affatto pochi, né tutti scontati: in questa lista nera degli “amici” compaiono i nomi dei soliti noti, i ricchi paesi arabi con in testa l'Arabia Saudita. Ma anche qualche insospettabile: la Francia e persino il primo fra gli alleati, la Gran Bretagna. Obama non lesina gli attacchi: troppo spesso si comportano da “free riders”, cioè si approfittano dell'America senza peritarsi di trascinarla in conflitti settari, impossibili e lontani dai suoi interessi nazionali. Parola di presidente, questi free riders «sono irritanti e esasperanti».

Obama, giunto al tramonto dell'ultimo anno alla Casa Bianca, si è concesso una serie di candide interviste di politica estera con la rivista The Atlantic durante le quali si toglie più di qualche sassolino dalle scarpe. Con toni insolitamente espliciti e acerbi per uno statista rinomato per l'atteggiamento cerebale e distaccato, semmai a volte esageratamente tale, fustiga con decisione nazioni amiche arabe e europee, oltre ai suoi critici negli Stati Uniti. E il dramma tuttora aperto della Libia è tra gli oggetti di polemica più accesa nei confronti degli alleati occidentali: Obama dichiara esplicitamente che il suo appoggio all'intervento Nato nel Paese è stato a conti fatti «un errore». Di più: un errore almeno in parte causato dalla malriposta fiducia nel fatto che l'impegno di Parigi e Londra sarebbe stato di molto superiore a quello poi verificatosi. Invece nell'ora del bisogno il britannico David Cameron si era defilato travolto da molteplici distrazioni e l'allora leader transalpino Nicolas Sarkozy si era rivelato voglioso di una sola e assai superficiale grandeur, quella pubblicitaria «per i voli francesi, nonostante le difese anti-aeree libiche fossero state annientate».

Riad, da parte sua, deve ancora imparare lezioni determinanti in tutto il Medio Oriente: i leader sauditi devono anzitutto accettare di convivere con l'Iran nella regione, contribuendo a far sì che i due influenti Paesi sposino una sorta di «pace fredda» anziché fomentare destabilizzanti scontri per delega.
Soltanto nella lotta a Isis Obama non manca di fare qualche autocritica: riconosce in particolare la propria debolezza nel comunicare la serietà con la quale ha preso la minaccia terroristica dello Stato Islamico e in questo modo le mancanze nel rassicurare gli americani dopo la strage di San Bernardino in California. Ma nessuna debolezza ammette sui grandi e delicati dossier di Siria, Russia e Cina. Qui, piuttosto, assale il tradizionale consenso della classe politica di Washington, che avrebbe la tendenza a privilegiare le soluzioni militari fino a prescrivere presunte e pretestuose difese della credibilità della presidenza ad ogni costo, anche quello di irresponsabili avventure belliche.
Occorre sapere bene «per che cosa si va in guerra», incalza Obama, e che non esistono vie d'uscita militari per simili crisi. L'Ucraina sarà sempre vulnerabile alla Russia «qualunque cosa noi facciamo», perché Mosca manterrà in ogni caso un «dominio nell'escalation» al cospetto del suo vicino. E Pechino, dove in gioco è la militarizzazione di isole contese nel Mar cinese meridionale, è più pericolosa se si sente assediata e indebolita che non quando il Paese ha successo.

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