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Turchia, un Paese in guerra dentro e fuori

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analisi

Turchia, un Paese in guerra dentro e fuori

La chiamano strategia della tensione, altri indicano i soliti sospetti, il Pkk curdo e l'Isis, ma c'è sempre una certezza negli attentati in Turchia: quasi mai si capisce chi sono i veri colpevoli e quasi mai le spiegazioni delle autorità sono convincenti. Non che questo accada soltanto in Turchia: la storia dell'Italia degli anni'70-80 è costellata di stragi lasciate senza una risposta.

In Turchia la verità del momento spesso coincide con una verità di comodo. Il problema è che la Turchia è un Paese in guerra dentro e fuori: la questione curda dura da oltre tre decenni, a questa si è aggiunto il conflitto in Siria, dove Ankara è diventata l'avamposto dei jihadisti che volevano abbattere il regime di Bashar Assad, e l'afflusso di 2,5 milioni di profughi ha complicato la situazione: l'Europa se ne vuole sbarazzare pagando Erdogan in euro e visti ma sarà costretta in ogni caso a fare i conti con la destabilizzazione della Turchia.

Se i curdi siriani hanno successo, con l'appoggio anche di Mosca, possono cambiare i rapporti di forza ai confini di un Paese membro della Nato. È una guerra dentro la guerra siriana e per ora senza soluzione, nonostante un cessate il fuoco comunque sempre labile. I negoziati sulla Siria che riprendono a Ginevra non porteranno ad alcuna soluzione, fino a quando almeno non cadranno le roccaforti dell'Isis a Raqqa e Mosul in Iraq.

Soltanto la consueta faciloneria degli europei del Nord può indurre a pensare che la Turchia sia la soluzione e non il problema. Ankara fa parte del problema mediorientale e dopo l'intervento della Russia a fianco di Assad è un Paese sul piede di guerra, ipersensibile a quanto accade alle frontiere, avviluppata dall'incubo che possa costituirsi uno Stato o una regione autonoma curda.

Ma questo non assolve il presidente Tayyip Erdogan e la sua politica, incoraggiata per altro a lungo proprio dalla signora Hillary Clinton, ex segretario di Stato e ora in campagna elettorale, e dagli altri Stati europei come la Francia. La Turchia sta pagando i calcoli sbagliati della sua leadership: aveva puntato sulla caduta di Bashar Assad a Damasco e con l'assenso anche delle potenze occidentali ha favorito il passaggio di migliaia di jihadisti.

Non solo: l'”autostrada della jihad” si è chiusa con l'ingresso in campo di Mosca il 30 settembre scorso, ma adesso i jihadisti e i gruppi di opposizione hanno perso la battaglia di Aleppo e ripercorrono in senso contrario la rotta della guerriglia mescolandosi ai profughi che fuggono in Turchia. È per questo che la Turchia e l'Arabia Saudita si stanno mobilitando: rischiano un'altra sconfitta per il fronte sunnita anti-Assad e un ulteriore rafforzamento dell'influenza iraniana nella regione.

Ma la Turchia paga soprattutto una questione nazionale non risolta, le cui radici certamente non dipendono da Erdogan, il quale che dopo avere concluso un accordo con Ocalan ha preferito poi imboccare la strada della repressione violenta, favorito anche dalle decisioni spericolate del Pkk che ha messo in difficoltà il partito curdo Hdp di Salahettin Demirtas. La pacificazione, come dimostrano le distruzioni di Cizre, Silvan e del quartiere di Sur a Diyarbakir, è ancora molto lontana. La crisi curda è un'emergenza cronica che serve a Erdogan per giustificare il pugno di ferro, come un tempo serviva ai generali kemalisti per restare in sella.

E soprattutto è ancora utile a coprire la protezione fornita ai jihadisti in questi anni, le complicità con i gruppi salafiti, finanziati dai sauditi e dalla monarchie del Golfo. Questo è il motivo di fondo per cui sapere la verità dei fatti in questo intreccio è assai complicato. Ma chi semina grandine raccoglie tempesta, anche se poi pagano gli innocenti a una fermata di un autobus: banale, ma è proprio questa la banalità del male contemporaneo e di un terrorismo feroce.

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