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Quali sono gli 11 Paesi Ue virtuosi sul debito pubblico

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Quali sono gli 11 Paesi Ue virtuosi sul debito pubblico

Vista dall'Italia sembra il Paese dell'utopia. Perché l'Estonia, piccolo Paese baltico con appena 1,3 milioni di abitanti, vanta un primato incontrastato che da noi sarebbe irrealizzabile: il suo debito pubblico si ferma intorno al 10% ed è stato uno degli assi nella manica per entrare nel club della moneta unica. Mentre la Commissione Ue ha appena chiesto a Roma ulteriori sforzi nella riduzione dello stock rispetto al Pil (stimato oltre il 130% quest'anno), il caso estone è il più eclatante, ma non è isolato: sono 11 sui 28 membri dell'Unione i Paesi con un livello al di sotto della fatidica soglia del 60%, che insieme al livello di deficit/Pil inferiore al 3% è diventato il dogma della politica di bilancio europea dagli anni 90 a oggi.

Cinque sono nell'area euro e sei hanno deciso di restarne fuori, con una forbice che va dal 9,8% dell'Estonia fino al 52,5% della Polonia, sulla base delle stime 2016 di Bruxelles. Nel mezzo ci sono uno dei Paesi fondatori della Ue, il Lussemburgo, patria del presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, e la Bulgaria, entrambi sotto il 30%, ma anche Lituania e Lettonia (il Paese del rigorista Valdis Dombrovskis, per cinque anni premier e ora Commissario agli affari economici), le scandinave Danimarca e Svezia e altri Paesi dell'Est come Romania, Repubblica Ceca e Slovacchia.

In alcuni di essi il basso livello di debito è rimasto costante dal 2012 a oggi, come in Estonia e Lussemburgo, che sulla base delle stime 2016 guadagna la seconda posizione, ed è rimasto sempre intorno al 22 per cento. Pochi sono stati gli scostamenti in Slovacchia e Polonia, al di sopra del 50% del Pil. Altri, come Danimarca, Lettonia e Repubblica Ceca, hanno imboccato un percorso in discesa: la prima dal 45,2% del 2012 al 38,3 stimato per quest'anno, la seconda dal 41,4 al 39,9%, la terza dal 44,7 al 40,7. In Bulgaria, Romania e Lituania negli ultimi cinque anni si è registrato un peggiormento, ma sempre al di sotto del 60 per cento.

«A differenza di Spagna o Irlanda - spiega Carlo Milani, economista del Cer, il Centro Europa Ricerche - gli undici hanno potuto tenere il debito sotto controllo perché non hanno dovuto andare in soccorso del loro sistema bancario». Il filo rosso che li lega è anche la capacità di aver reagito alla crisi agendo sul denominatore, facendo cioè aumentare il Pil, con riforme in alcuni casi dolorose e pesanti. È il caso dei Paesi baltici ex sovietici, che hanno vissuto sulla loro pelle una pesante recessione e hanno messo in campo misure draconiane. In particolare, l'Estonia ha diviso la comunità economica: laboratorio di successo dell'austerity per alcuni o metafora di un fallimento per altri, come il Nobel Paul Krugman, che nel 2013 ha avuto un acceso scambio su twitter con il presidente estone Toomas Hendrik. In Polonia la recessione non si è fatta neppure sentire e il Pil dovrebbe crescere, secondo Bruxelles, del 3,5% quest'anno. I due Paesi, così come Danimarca e Svezia, sono tradizionalmente tra i più virtuosi nella spesa dei fondi strutturali Ue. «Questo significa - osserva Milani - che parte degli investimenti vengono realizzati con risorse europee senza gravare sul bilancio dello Stato, con un impatto positivo sul debito».

In altri Paesi le ragioni vanno poi cercate nel livello di spesa per welfare inferiore alla media europea, che mantiene basso il conto da pagare per le casse dello Stato. Così, se secondo gli ultimi dati di Eurostat in media nei Ventotto la spesa sociale vale il 29,5% del Pil, in Romania il welfare rappresenta il 15,6% e in Bulgaria il 17,4 per cento. Basti invece pensare che l'Italia dedica a questa voce ben un terzo del suo Prodotto interno lordo. Il discorso non vale per Svezia e Danimarca, che brillano proprio per questo tipo di spesa.

Per una volta la Germania non è tra i primi della classe, ma punta ad avvicinarsi all'obiettivo, facendo registrare un debito al 69,2% del Pil nel 2016 rispetto al 79,7% del 2012; anche Malta nel 2017 dovrebbe entrare nel club dei virtuosi, che invece la Finlandia ha abbandonato nel 2015 e la Slovenia nel 2013. Gli altri Paesi sono fuori rotta, con Portogallo, Spagna, Italia e Grecia ben oltre quota 100 per cento.

Ma perché il criterio del debito è così importante? Con l'entrata in vigore del fiscal compact - che Gran Bretagna e Repubblica Ceca non hanno sottoscritto - è possibile l'apertura di una procedura di infrazione per i Paesi che hanno un livello superiore al 60% e non riducono di un ventesimo all'anno la quota di debito che li separa da quella soglia. Il calendario varia da caso a caso: per l'Italia l'obbligo è scattato quest'anno, mentre per gli undici virtuosi questa regola non vale. «L'importante - conclude Milani - non è tanto il livello ottimale del debito, ma la sua sostenibilità, ovvero la capacità di pagare gli interessi su questo debito e di far ripartire il Pil. In questo senso le misure della Bce della scorsa settimana possono aiutare. I governi ora non hanno più alibi e devono fare la loro parte».

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