
È il vero, grande sconfitto: Marco Rubio, un tempo incoronato come il salvatore del partito repubblicano, è invece diventato l'ultima vittima della cavalcata arrabbiata e populista di Donald Trump. Travolto e umiliato nella “sua” Florida, che quattro anni fa lo aveva eletto senatore per la sua immagine di giovane d’assalto in un partito che voleva diversificare l’immagine, attirando voti della minoranza ispanica, e corteggiare la rivolta populista dei Tea Party.
La caduta del 44enne Rubio, che in Florida ha perso di quasi 20 punti da Trump e ha subito annunciato la fine della campagna, è stata rapida quanto la sua ascesa. La sua immagine, seppur costruita con cura, ha mostrato più di un tallone d’Achille che i suoi avversari, interni e esterni, hanno potuto sfruttare per detronizzarlo. Ci sono state le gaffe da inesperienza: deludenti performance nei dibattiti, dove è parso aver memorizzato le sue risposte e scambi di insulti con Trump. Ma la fragilità della sua candidatura è stata soprattutto politica: si è dimostrato incapace di raccogliere la domanda di cambiamento tra i conservatori, scontando contraddizioni diventate sempre più evidenti e tacciate come esempio di opportunismo.
È d’obbligo cominciare dalla sua storia personale, pilastro di tutte le candidature. Un serio errore nella sua biografia, men che casuale e difeso fino all’ultimo, Rubio lo ha corretto nel 2011. Per anni però su questo errore aveva fatto leva per una carriera-lampo nel partito repubblicano: figlio di esuli cubani fuggiti dall’odiato regime di Fidel Castro, che in America avevano trovato la terra per il loro sogno, realizzato con duro lavoro. E portato a compimento dalle ambizioni di Marco, politico locale in Florida prima, senatore poi prima di diventare tra i più quotati aspiranti alla presidenza.
Peccato che, svelò un’inchiesta del Washington Post, la famiglia di Rubio sia emigrata negli Stati Uniti, tra la Florida e Las Vegas, nel 1956. Cioè ben prima della rivoluzione castrista del 1959. Una fuga avvenuta durante gli anni del dittatore Fulgencio Batista - semmai uno dei lati oscuri del sogno americano, visto il sostegno che Washington gli aveva sempre garantito. Di più: suo nonno era un immigrato illegale che dopo essere entrato negli Stati Uniti, li lasciò perché deluso dalla prospettive finanziarie per rientrare a Cuba all’indomani dell’avvento di Castro e infine rientrare negli Usa due anni dopo, illegalmente. Una saga, vale a dire, di emigrati economici come tanti dall’America Latina di ieri e di oggi - e neppure tra i più disperati. Molto simili a quegli emigrati ai quali i repubblicani vorrebbero chiudere la porta in faccia senza troppi complimenti.
La sua ascesa nei ranghi repubblicani è stata a sua volta men che inattaccabile. La fama l’ha raggiunta quale volto nuovo tra i conservatori intransigenti, ispirandosi apertamente ai Tea Party, il movimento che scosse il partito repubblicano e che lo fece eleggere senatore dalle urne della Florida come Ted Cruz venne eletto in Texas. Ma Rubio si è fatto strada, prima e dopo l’elezione al Congresso nazionale, anche con manovre molto tradizionali e discusse nel partito. Fu accusato dai rivali di essere un lobbista sotto mentite spoglie, vicino a personaggi meno che raccomandabili (un suo alleato politico locale fu indagato per aver fatto uscire fuori strada un avversario e per corruzione), e per abusi nell’uso personale della carta di credito del partito (quando era leader della Camera della Florida).
Non è un segreto la stretta relazione che, nonostante la militanza nei Tea Party, coltivò con l’establishment incarnato da Jeb Bush, erede della dinastia presidenziale e indiscussa potenza del partito in Florida. Una vicinanza che ha fatto paragonare il successivo scontro tra i due - Rubio si è candidato ben sapendo delle aspirazioni di Jeb — ad un parricidio. Era stato proprio con Bush da padrino politico che Rubio aveva dato corpo alla sua credibilità tra le elite repubblicane, tanto da scendere in campo a favore della campagna presidenziale di Mitt Romney nel 2012 - con un appassionato discorso alla Convention del 2012 - e da essere menzionato fin da allora, solo due anni dopo la sua prima elezione al Senato, tra i potenziali aspiranti alla vicepresidenza.
Da allora ha poi anche corteggiato alcune delle anime piccole ma influenti del partito, sposando posizioni aggressive in politica estera (i Neocon) e più aperte in politica economica (i Reformicon) con un occhio alla propria eleggibilità. Con le sue giravolte sull’immigrazione, oggi cavallo di battaglia di Trump, forse ha pagato uno dei prezzi più cari: dopo esser stato tra i grandi critici degli ingressi illegali, ha guidato la cosiddetta “banda degli otto”, una coalizione bipartisan che propose una riforma con la possibilità di legalizzazione dei clandestini già negli Stati Uniti. Un’idea coltivata dall’establishment ma che ha sollevato le ire dei suoi ex sostenitori nei Tea Party. Rubio era parso sentire la sconfitta ormai da giorni: per chiudere la sua campagna in Florida era rientrato nel quartiere dove era cresciuto, nel cuore di Miami e a due passi da Calle Ocho, cuore di Little Havana. In un centro ricreativo dove da giovane giocava a pallacanestro, ha parlato lunedì sera del compimento, comunque, del suo sogno americano dal cassone di un furgone. «Anche la mia peggiore giornata - aveva detto - è migliore persino delle più felici per tanti di coloro che sono arrivati qui senza nulla e alla ricerca di una nuova vita per la loro famiglia».
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