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Quel filo rosso che lega Roma e Parigi

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i rapporti industriali

Quel filo rosso che lega Roma e Parigi

Il filo che lega il capitalismo industriale italiano e il capitalismo industriale francese viene da lontano. Ed è un filo robusto. La Francia è sempre stato il principale mercato di sbocco per i prodotti industriali del Nord Italia. Il nostro Paese ha fin dagli anni Cinquanta assorbito grandi quantità di beni intermedi prodotti Oltralpe. Con una evoluzione recente: è soprattutto negli ultimi vent'anni che le tele azionarie si sono gradualmente intrecciate fra i due Paesi. Anche queste intersezioni a livello proprietario hanno origini antiche.

Nella seconda metà degli anni Sessanta, Umberto Agnelli progettò l'acquisizione della Citroën. Una operazione non ostile, dati i rapporti strettissimi fra la principale famiglia dell'industria italiana e le classi dirigenti parigine. Una iniziativa che, però, venne fermata dal patriottismo di Charles de Gaulle. È soprattutto con l'apertura dei mercati globali avvenuta negli anni Novanta che incomincia a costituirsi un sistema industriale europeo, che ha nella crescente osmosi italo-francese un elemento fondante. Non a caso François Pinault acquisisce il primo consistente pacchetto di un grande marchio come Gucci nel 1999. Questa osmosi – nella fisiologia industriale di un ipotetico aggregato italofrancese – costruisce negli anni un equilibrio che ha una prevalenza francese. La cosa va detta. Secondo la Banque de France, alla fine del 2014 gli investimenti diretti esteri italiani in Francia ammontavano a 18 miliardi di euro, contro i 46 miliardi di euro di quelli francesi in Italia. Dunque, l'operazione da 700 milioni di euro di Lavazza su Carte Noire è avvenuta in un paesaggio industriale ben preciso, dove l'equity di società francesi controllato da azionisti italiani esiste, ma non è prevalente.

Invece, l'avanzata di Vincent Bolloré su Telecom si sta verificando in un contesto in cui il peso dei capitali francesi sugli equilibri azionari italiani – al di là delle dimensioni e del settore delle specifiche imprese – sta costantemente crescendo. Non soltanto in termini quantitativi di stock. Ma anche in termini dinamici. Non a caso, sempre secondo Banque de France, dalla seconda metà degli anni Novanta gli investimenti italiani in Francia sono saliti a un tasso medio per esercizio del 2%, mentre quelli francesi in Italia sono aumentati del 12 per cento. E poco importa che si tratti di investimenti greenfield, ossia di fondazione di nuove società, oppure di acquisizioni di quote in aziende già esistenti. Sono queste le proporzioni dei flussi di capitale, sulle rotte Italia-Francia e Francia-Italia, diretti a comparti produttivi.

Dunque, il tempo zero delle nuove relazioni fra Francia e Italia, con un tasso di penetrazione nell'equity che è sei volte maggiore della prima rispetto alla seconda, è la fine degli anni Novanta. Appunto, Gucci si integra in un gruppo francese in quel periodo.

Non sempre le operazioni hanno un carattere di piena amichevolezza. E non sempre il mercato viene lasciato fare. Soprattutto in Francia. Secondo un dirigismo che ha caratterizzato tutto il secondo dopoguerra. Non a caso, ancora nel 2006 all'Enel viene sostanzialmente impedito di acquisire Gaz de France, che poi si fonde con Edf. Dopo quello stop, Enel si orienterà sul mercato spagnolo con Endesa. Allo stesso tempo, nelle pieghe della complessa riorganizzazione dell'industria e del mercato energetico italiano, Edf diventa un attore centrale e acquisisce gradualmente Edison, ultimando l'operazione nel 2011. Il 2011 è anche l'anno dell'Opa su Parmalat da parte di Lactalis. Parmalat aveva sperimentato un turn-around finanziario e industriale profondo, in grado di farla tornare a essere un protagonista del mercato dei consumi europeo dopo i disastri fedigrafi e truffaldini del Cavalier Tanzi e del Ragionier Tonna. Un turn-around pagato in maniera assai salata anche dalle banche, in particolare italiane. Per questa ragione l'acquisizione di Lactalis, che ottenne il controllo di una impresa assai patrimonializzata e molto liquida (ben 2 miliardi di euro in cassa), venne accolta con non poche critiche. Non tanto ideologiche, nel senso della strategicità o meno del comparto alimentare e dell'opportunità che un suo caposaldo finisse ai francesi. Quanto, appunto, per il semplice calcolo dei costi-benefici sopportati dal sistema italiano per fare uscire dal dissesto l'azienda di Collecchio.

Oltre alle public utility e all'agroalimentare, il comparto in cui sono si sono contati più investimenti francesi in Italia è quello della moda. In questo caso, la ratio industriale è quella della incapacità italiana di crescere – per linee interne o per fusioni fra gruppi familiari diversi – in maniera adeguata per competere sui mercati globali. Una evoluzione che, invece, hanno saputo affrontare e realizzare i concorrenti francesi, in particolare i grandi aggregati di Bernard Arnault e di François Pinault. Nel 2013 la Gucci di Kering (il nome del gruppo controllato da Pinault) ha rilevato dal fallimento con una spesa di 13 milioni di euro la Richard Ginori, simbolo delle più raffinate porcellane europee. Sempre Kering ha comprato, nello stesso anno, i gioielli di Pomellato (una operazione da 350 milioni di euro).

L'altro big player francese, Lvmh di Bernard Arnault, ha acquisito nel 2011 per 4,3 miliardi di euro Bulgari e, nel 2013, ha acquistato l'80% della Loro Piana per 2 miliardi di euro. Capitali e controllo strategico francese. Finanza di impresa globale e piattaforme logistiche ultra internazionalizzate, per soddisfare ovunque i bisogni e i desideri del lusso. Marchi italiani e manifattura italiana, dalla pelletteria di Scandicci ai tessuti biellesi, fino alle calzature del Brenta.

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