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borse e politica monetaria

Investimenti, torna di moda l’area bollente dei Paesi emergenti. Il paradosso che intrappola la Fed

È in corso una rotazione dei portafogli dei gestori sui mercati emergenti. Sono in tanti ad ammetterlo. Lo si deduce anche dall’andamento delle Borse dei Paesi emergenti: da metà gennaio l’indice Msci emerging market è salito del 20 per cento. Come mai è tornato l’appetito al rischio su una zona definita fino a poco tempo fa bollente?

Qualcuno potrebbe pensare che il ritorno degli acquisti è legato allo sgonfiamento delle tensioni nell’area. In realtà non è così: i motivi che fino a poco tempo fa preoccupavano un po’ tutti gli investitori ci sono ancora, semmai ingigantiti.

I numeri indicano che sui mercati emergenti pesa il fardello di una bolla finanziaria che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Le 15 maggiori economie emergenti tra il 2009 e il 2014 hanno sperimentato una spettacolare crescita del Pil che è aumentato in media del 48%, contro un +6% messo a segno dai Paesi del G20. Un boom alimentato soprattutto dalla benzina del debito. Dal 2004 al 2014 - calcola il Fmi - il debito societario (banche escluse) negli emergenti è passato da 4mila a 18mila miliardi di dollari, con un'incidenza sul Pil arrivata oltre il 70 per cento (+26%). Nella principale economia in via di sviluppo (la Cina) il rapporto tra debito societario e Pil oggi viaggia su livelli superiori del 25% rispetto alla sua media storica. Altri Paesi come il Brasile, la Thailandia o la Turchia mostrano anch'essi livelli di «credit gap» superiori al 10 per cento.

L'esplosione di questo debito è direttamente correlata al ciclo ultraespansivo di politica monetaria varato dalla Fed per far fronte alla crisi finanziaria del 2008. Con i tassi a zero in Europa e negli Usa i grandi asset manager «affamati di rendimento» hanno riversato enormi masse di capitali sugli emergenti. In questo contesto le aziende hanno fatto abbondante ricorso al mercato obbligazionario, dove le emissioni si sono moltiplicate.

Il legame tra politica monetaria della Federal Reseve e flussi di capitale sui Paesi emergenti è molto stretto e ci permette di comprendere meglio l’attuale paradosso. Le società dell’area emergente hanno accumulato negli ultimi anni un ingente debito in dollari, grazie ai tassi azzerati negli Usa. Questo significa che va tutto bene finché gli Usa mantengono bassi i tassi, ma se la Fed inizia ad alzarli - manovra che innescherebbe anche una rivalutazione contestuale del dollaro - il debito in dollari di questi Paesi aumenta. Con il rischio che si crei un collasso.

Bene. La Fed ha alzato i tassi - dopo quasi 10 anni di astinenza - a dicembre 2015 promettendo che avrebbe attuato un altro ritocco dello 0,25% a marzo 2016. Ma a marzo 2016 - nonostante l’inflazione a 5 anni viaggi sopra il 2% e il tasso di disoccupazione sia sceso al 4,9%, condizioni ideali per procedere nella normalizzazione dei tassi - la Fed ha rinviato al stretta. Il motivo principale è che la Fed non vuole avere un dollaro troppo forte. Il secondo motivo è che teme ripercussioni nell’area emergente e a cascata per l’economia statunitense in un modo sempre più globalizzato.

Quindi dove sta il paradosso? L’attuale situazione è paradossale perché gli Usa fanno fatica ad alzare i tassi (anche) perché temono conseguenze sul debito in dollari dei Paesi emergenti. Ma non appena annunciano un rinvio della stretta cosa fanno gli investitori? Finanziano l’area emergente per lo scampato pericolo, andando a collocare liquidità in un’area che offre tassi migliori che altrove. Ma così facendo si rischia di alimentare una bolla che ormai si è creata, e tutti sanno che esiste, anche se non è ancora scoppiata.

Il mercato palesa la sua natura: cinico e orientato al mordi e fuggi rapido. Privo di strategie di medio periodo. Così facendo le politiche monetarie delle principali banche centrali - le stesse che dovrebbero stimolare la creazione di regole per frenare l’ingordigia dei mercati lasciati a se stessi - vengono intrappolate.

twitter.com/vitolos

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