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Il dollaro perde terreno, i rumors si rincorrono: e se ci fosse un…

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il presunto «accordo di shanghai»

Il dollaro perde terreno, i rumors si rincorrono: e se ci fosse un patto segreto per svalutare la moneta?

Il presunto patto tra le quattro grandi banche centrali ha già un nome: “Plaza 2.0”, con riferimento all’accordo siglato il 22 settembre 1985 all’Hotel Plaza di New York tra i governi di Stati Uniti, Germania Ovest, Giappone, Francia e Regno Unito. L’obiettivo era indebolire l’allora sopravvalutato biglietto verde, in particolare nei confronti del marco tedesco e dello yen nipponico.

Esiste oggi un patto segreto “Plaza 2.0” siglato tra le banche centrali di Stati Uniti, Eurozona, Giappone e Cina in occasione del recente G20 di Shanghai? Il dubbio è venuto a molto operatori e analisti guardando i grafici del dollaro, che da tre settimane sta perdendo terreno contro le altre principali valute. Uno dei primi a parlare di un accordo a porte chiuse raggiunto a Shanghai è stato Joachim Fels, strategist di Pimco. Uno dei primi, ma non certo l’unico.

«Un’interpretazione delle recenti mosse fatte dalla Bce e dalla Federal Reserve è che rappresentino un tentativo coordinato di alleviare le tensioni sui mercati finanziari globali evitando pressioni al rialzo sul dollaro - sottolineano Jan Hatzius e Sven Jari Stehn, rispettivamente capoeconomista ed economista di Goldman Sachs - in particolare nel cambio con il renminbi».

«E' difficile scacciare l’impressione che a Shanghai abbia avuto luogo un grand bargain tra i leaders, per abbassare la volatilità sui cambi che tanto sta danneggiando il sentiment globale», spiega Giuseppe Sersale, strategist di Anthilia Capital Partner. La Cina si sarebbe impegnata a intensificare gli sforzi per stabilizzare divisa ed economia, riflette l’economista, e in cambio avrebbe ottenuto dagli Stati Uniti una politica monetaria più accomodante. E di conseguenza un dollaro meno forte (circostanza che giova non solo al gigante asiatico, che mantiene di fatto un peg col biglietto verde, ma tutti gli emergenti), e dall’Europa e dal Giappone un freno alle svalutazioni competitive. «Un ritrovato equilibrio sui cambi riduce una delle leve di politica monetaria, la più rapida, in quanto sottrae domanda ai competitors ed esporta deflazione - sottolinea Sersale - . D’altro canto, elimina una fonte di volatilità, e, ponendo un freno al rally del dollaro contribuisce a ridurre la pressione sulle commodities e con essa le spinte disinflattive. E restituisce credibilità alle banche centrali».

Viste sotto questa luce, le ultime mosse delle grandi banche centrali acquistano tutt’altra logica. La Fed che dimezza i rialzi dei tassi previsti per quest’anno, la Bce che abbraccia il credit easing dichiarando di abbandonare la leva dei tassi (e quindi della svalutazione dell’euro), la Banca del Giappone che - nonostante lo yen sia ai massimi da oltre un anno sul dollaro - resta immobile. E Pechino che taglia la riserva obbligatoria e aumenta le iniezioni di liquidità, senza temere un graduale apprezzamento dello yuan. Tutto perfettamente logico, come se i quattro grandi timonieri della politica monetaria mondiale si fossero messi d’accordo.

Ma ammesso che esista davvero un “Plaza 2.0”, un patto di questo tipo durerà? Molti analisti ne dubitano. «Un cosiddetto “accordo di Shanghai” sarebbe difficile da implementare - ragiona John Kicklighter, chief currency strategist di Daily Fx - ed è poco probabile che sia efficace nelle condizioni attuali».

E secondo Julian Jessop, capoeconomista di Capital Economics, la “Fed colomba” degli ultimi meeting potrebbe cambiare volto se la pressione inflattiva dovesse continuare a crescere, anche se questo significherà avere un dollaro più forte. «Nei prossimi mesi ci aspettiamo che il biglietto verde riprenda ad apprezzarsi contro euro e yen - spiega Jessop - poiché la divergenza delle politiche monetarie tornerà a rappresentare il tema dominante».

Sulla stessa lunghezza d’onda si trovano Hatzius e Stehn di Goldman Sachs, convinti che la vita della “Fed colomba” sarà breve, poiché «i tassi saliranno più di quanto prezzato oggi sul mercato obbligazionario». Senza però dimenticare le lezioni della storia: negli ultimi anni, il mercato è stato in grado di influenzare le scelte della Federal Reserve molto più di quanto si credesse. Stavolta come andrà a finire?

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