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Il demone dei massacri che voleva essere poeta

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CHI È RADOVAN KARADZIC

Il demone dei massacri che voleva essere poeta

Reuters
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Dominare la vita, corteggiare la morte, infliggerla agli altri, architettare stragi e pulizie etniche, credersi un grande poeta che salva un mondo in disfacimento insieme alla Jugoslavia e poi cambiare vita, nascondersi da latitante e ricercato con una nuova identità per diventare una sorta di guru psicopatico delle periferie di Belgrado: tutto questo è stato Radovan Karadzic, amico anche di quel Limonov descritto da Emanuel Carrére con il quale spareranno su Sarajevo accanto alle Tigri di Arkan, con il generale Mladic che dirigeva l'artiglieria e Milosevic a contare i morti nella residenza dove aveva abitato per decenni il Maresciallo Tito.

Lo stesso palazzo che esattamente 17 anni fa bombardava la Nato dopo il fallimento dei negoziati sul Kosovo, un anniversario ricordato a Belgrado e che forse passerà inosservato di fronte alle tragedie presenti.
Karadzic è stato per un decennio uno dei demoni dei massacri dei Balcani e anche uno degli incubi, insieme alle granate, dei giornalisti che risiedevano all'Holiday Inn nei giorni dell'assedio di Sarajevo.

Al culmine della sua parabola di leader Karadzic amava farsi annunciare rumorosamente. Nel febbraio del ’92 le sue milizie entrarono sparando all'impazzata nella hall dell'Holiday Inn per non lasciare dubbi su chi si preparava ad assediare, per oltre 1.200 giorni, la città di Sarajevo.

Lui arrivò poco più tardi, a notte fonda, a occupare le suite dell'albergo. Si accomodò su in divano e passò rapidamente, senza mostrare alcun disagio, dalle raffiche di mitra alle “interviste”, rilasciando dichiarazioni sconcertanti. «I musulmani bosniaci non sono altro che stranieri, turchi da eliminare, visto quello che fecero qui i pasha durante l'Impero ottomano mozzando le teste dei nostri antenati». «Sono solo degli ammazzacristiani, dei nemici della civiltà». Era inutile far notare che a Sarajevo, esempio di convivenza, c'erano molti matrimoni misti e che nelle moschee, all'epoca, non andava neppure il 10% della popolazione.

Karadzic era convinto di essere nel giusto e inframmezzava i suoi discorsi, anche in inglese, con citazioni che volevano essere forbite: si piccava di essere poeta, oltre che psicanalista. Un oratore efficace con inclinazioni da teatrante che stava preparando non una recita innocua fatta di frasi roboanti ma il peggiore massacro nel cuore dell’Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale: 200mila morti e quasi un milione di profughi.

Lo ascoltavamo perplessi, non increduli, perché dopo il referendum con cui era stata varata qualche giorno prima l'indipendenza della Bosnia si erano già manifestati i presagi della tragedia. L’altro criminale, il generale serbo Ratko Mladic, aveva mobilitato l'artiglieria mentre il neo-presidente bosniaco, il musulmano Alja Izetbegovic, si illudeva di poter contare sull'esercito federale per tenere a bada le milizie.

Un colpo di pistola, come quello che nella Sarajevo del 1914 aveva dato inizio alla Prima guerra mondiale, innescò l'assedio. Davanti a una chiesa ortodossa un attacco aveva preso di mira il corteo di un matrimonio e freddato sul sagrato il padre della sposa. I ponti sulla Miljacka furono invasi dalle barricate, l'arteria principale si tramutò nel Viale dei Cecchini, dove gli sniper di Karadzic fecero poi fuori buona parte della popolazione (12mila morti), la città si divideva tra serbi e bosniaci, il suo cuore era spezzato, andava in frantumi un altro pezzo della Jugoslavia di Tito.

Karadzic, quasi ogni sera, impartiva all'Holiday Inn le sue “lezioni” di storia balcanica. Alto, imponente, con una folta capigliatura pepe e sale, dominava un uditorio tenuto discretamente sotto tiro dei mitra. Voleva essere efficace nel descrivere il diritto degli slavi a possedere in esclusiva quella terra, rafforzato, secondo lui, anche da concrete evidenze razziali: «Vedete come sono alto - diceva - noi tutti slavi del Montenegro lo siamo, perché abbiamo i femori più lunghi d'Europa. I musulmani sono una razza inferiore, sono rimasti più piccoli perché mangiano e pregano per terra. E poi mentono sempre».

Queste strampalate teorie antropomorfe sull'inferiorità dei bosniaci si tradussero in massacri come quello di Srebrenica dove nel luglio del ’95 le sue milizie e le truppe di Mladic fecero fuori 8mila civili. Poco lontano da Sarajevo, tra vallate rigogliose così ingannevoli da ricordare la Svizzera, instaurò la Repubblica serba di Pale, ancor oggi una delle tre entità della Bosnia: con Karadzic Pale si trasformò in una sorta di Salò dei Balcani, un ridotto sostenuto da Belgrado, un altro dei moncherini etnici in cui si dissolse la Jugoslavia.

Stragi, pulizia etnica, stupri: per questo condannato a 40 anni di carcere dal Tribunale Onu dell’Aja il vojvoda, il condottiero montenegrino. Ma ciò che fecero i Milosevic, i Mladic, i Karadzic, e dozzine di altri come loro, non solo serbi ma anche croati e musulmani, era noto già nel momento in cui avvenivano gli eventi, fu riportato puntualmente dalle cronache davanti agli occhi di un'Europa che molto esitò a intervenire. E quando lo fece con fermezza, non lasciando che se la sbrigassero soltanto i tremebondi caschi blu dell'Onu, fu sulla spinta decisiva dell'America di Bill Clinton.

Ai Karadzic e ai criminali come lui dobbiamo il “buco nero” dei Balcani, la nascita nell'ultimo decennio del secolo scorso di entità deboli, inaffidabili, etnicamente “pure”, una geografia politica divisa e frammentaria che può sembrare ineluttabile. Certo si tratta del fallimento della Jugoslavia ma anche di un progetto più generale, quello della convivenza e della solidarietà, al di là delle etnie e delle religioni, nello Stato moderno. Quello che è accaduto nei Balcani ci riguarda direttamente e non solo per vicinanza. L'Unione europea, con un paracadute composto da migliaia di uomini in divisa e miliardi di euro, ha attutito la disastrosa traiettoria dei Balcani e sta tenendo a galla un manipolo di piccoli Stati, per recuperarli alla stabilità, con accordi e trattati di associazione: la Bosnia, la Serbia, il Kosovo, la Macedonia, l'Albania. Non c'è altro da fare, forse: ma siamo sicuri di avere imparato a difenderci dalle funeree e deliranti “lezioni” balcaniche dei Karadzic?

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