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Abbiamo tutti l’obbligo di far pressioni sull’Egitto

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l’analisi

Abbiamo tutti l’obbligo di far pressioni sull’Egitto

Reuters
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Il rimpasto di governo di mercoledì al Cairo aveva sollevano qualche speranza: innegabilmente, la sostituzione del ministro degli Interni Magdy Abdel Gafar, titolare del caso Regeni, sarebbe stato un segnale. Gafar invece è rimasto al suo posto e il giorno dopo, giovedì, gli egiziani si sono inventati la storia dei cinque banditi.

La domanda ora è: che fare? Ha ancora senso continuare a dare tempo alle autorità egiziane, a stimolarne la trasparenza continuando a facilitare la nostra collaborazione? L’Italia ha mandato un team di investigatori al Cairo, sapendo che non avrebbero avuto alcuna collaborazione; c’è stata la missione del giudice Pignatone; un giornale italiano ha pubblicato un’intervista a dir poco accondiscendente al presidente al Sisi. E il 5 aprile arriverà a Roma una missione della polizia investigativa egiziana: la stessa che da un mese s’inventa soluzioni sulla morte di Giulio Regeni.

«Massimo rigore e niente sconti», dicono alla Farnesina. Almeno fino ad ora il governo non si è comportato male: nulla di paragonabile con la fiera degli errori attorno ai nostri marò in India. L’esecutivo ha scelto la linea della pazienza e della collaborazione, senza mai cedere alla tentazione di accettare le versioni egiziane della morte di Giulio. Caso non comune, i nostri diplomatici al Cairo non si sono mai fatti prendere dalla sindrome di Stoccolma. Ora però è forse venuto il momento di riflettere su quanto sia ancora utile pazientare. Se non sia il caso di richiamare il nostro ambasciatore per consultazioni: in diplomazia è il primo forte segnale d’insoddisfazione di un governo verso un altro.

Ma il compito di alzare la pressione sugli egiziani non spetta solo al governo, se esiste il famoso “sistema paese”. Da quando Giulio è morto – da quando cioè hanno fatto ritrovare il suo cadavere – il business italiano in Egitto va avanti a livello tecnico: il resto è stato congelato. Ma non basta. C’è un Business Council italo-egiziano e sarebbe utile se in quel forum la parte italiana agisse sui partner egiziani. Il capo della Confindustria al Cairo è deputato del nuovo parlamento del Cairo: anche la nostra Confindustria ha la possibilità di fare autorevolmente pesare l’insoddisfazione delle imprese italiane storicamente presenti in Egitto.

E ci sono i nostri parlamentari che oltre a manifestare la loro indignazione a giornali e tv italiane, dovrebbero trovare i canali per arrivare ai loro colleghi egiziani. È probabile che i nostri imprenditori e deputati abbiano uno scarso effetto sui loro interlocutori “istituzionali”: in uno stato di polizia come l’Egitto contano solo il presidente e i suoi apparati di sicurezza, gli altri hanno scarsa capacità d’influenza. Ma abbiamo tutti l’obbligo di provarci. È per Giulio.

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