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Sbarco simbolico, cammino ancora lungo

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il nodo della sicurezza

Sbarco simbolico, cammino ancora lungo

Arrivare via terra, con un lungo convoglio? Impensabile. In aereo? Opzione scartata. Soprattutto da quando il governo ombra di Tripoli, ostile, aveva appositamente chiuso lo scalo, e raffiche di contraerea delle sue milizie echeggiavano nell’aria come un lugubre avvertimento.

Accompagnato da sette membri del Consiglio di presidenza, il premier del nuovo governo libico di unità nazionale, Fayez Sarraj, è stato costretto ad arrivare nella capitale della Libia via mare, a bordo di una fregata militare. Quasi fosse un conquistatore in un Paese ostile. La sede di questo controverso Governo, la cui composizione è stata rinviata per mesi a causa delle rivalità tra i riottosi parlamentari libici, sarà la base navale di Abu Seta.

La richiesta ufficiale da parte di un governo di unità nazionale è considerata da molti Paesi occidentali come la condizione per dare il via all’attesa missione militare internazionale finalizzata in teoria a stabilizzare il Paese. In pratica anche a dare una mano ai libici a sbarazzarsi della presenza dell’Isis. Se il buongiorno si vede dal mattino saranno tempi davvero duri. «È urgente un pacifico e ordinato passaggio dei poteri» al governo di unità, ha affermato Martin Kobler, l’inviato dell’Onu per la Libia. Ma la situazione è molto complessa. E rischiosa. Soprattutto quando si parla di passaggio dei poteri. Chi deve cedere il potere? E a chi?

Occorre tornare indietro all’estate del 2014, quando una coalizione di milizie di tendenza islamica (Alba libica) conquista con la forza la città di Tripoli insediando un governo parallelo. Gli onorevoli, spodestati, fuggono a Tobruk, in Cirenaica. La loro prima sede per gli incontri è un battello ancorato nel porto, pronto a salpare per il vicino Egitto se le cose dovessero mettersi male. E mentre lo Stato islamico approfitta di questo pericoloso vuoto di potere, il Paese si spacca; da una parte il Governo ombra, con il suo Parlamento vicino ai Fratelli musulmani (quindi non estremista anche se pur sempre islamico). Dall’altra il Parlamento di Tobruk, di tendenze più “laiche”, che nel giugno del 2014 era stato ufficializzato da un’elezione riconosciuta dalla comunità internazionale ma a cui, in verità, avevano partecipato pochi libici. Due esecutivi, dunque, due parlamenti, due amministrazioni, perfino due ministeri del petrolio che rivendicano la legittimità a gestire la sola ricchezza di cui l’ex regno di Muammar Gheddafi dispone in abbondanza. E basta poco perché i due governi, l’uno sostenuto dalla Turchia e dal Qatar, l’altro, quello di Tobruk, dall’Egitto e dagli Emirati Arabi Uniti, si facciano la guerra.

In carica dal 31 marzo del 2015, Khalifa Ghwell, il premier del governo ombra di Tripoli, non ha certo gradito l’arrivo del nuovo esecutivo definendolo «un pugno di persone». E nella capitale non pochi cartelli esponevano sostegno al Governo che dovrà fare i bagagli. Nei giorni scorsi Khalifa Ghwell aveva perfino minacciato di arrestare i membri del nuovo governo. D’altronde è lui ad avere il coltello dalla parte del manico. La sua forza militare, Alba libica, di cui le milizie di Misurata compongono l’ossatura, è di gran lunga più numerosa rispetto ai pochi soldati sbarcati per proteggere Serraj. Se in Libia si comanda con le armi, allora, a meno di nuovi accordi, Alba libica rischia di comandare ancora in Tripolitania.

E qui, dunque, si arriva al nocciolo della questione. Come può governare e controllare il territorio di un Paese così esteso come la Libia un premier voluto dalla comunità occidentale se non riesce nemmeno a uscire dalla base militare di Tripoli senza correre il rischio di essere attaccato?

Insomma la sicurezza è tutto. E se non si risolveranno tutte le spinose questioni legate alla sua gestione – chi sarà il capo di stato maggiore? quali milizie devono essere disarmate e quali incluse nel nuovo esercito? – lo sbarco di ieri sembra solo un gesto simbolico destinato a lasciare le cose invariate. Senza contare che il governo di unità piace poco ancora a molti onorevoli di Tobruk, che lo hanno bocciato ripetutamente negli scorsi mesi.

Occorrerà dunque tonare ancora al tavolo negoziale. Farlo presto, in fretta, e mettendo da parte gli antichi rancori. Perché sono state proprio le divisioni, degenerate in guerra, tra i due governi ad aver accelerato l’ascesa dell’Isis in Libia.

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