Da scaltro dittatore quale era, Muammar Gheddafi aveva compreso bene una cosa. Agitare lo spettro di un esodo di migranti da riversare sulle coste europee poteva rivelarsi utile per realizzare i suoi disegni. Negli ultimi anni del suo regime la Libia contava quasi sei milioni di abitanti; di questi un milione erano immigrati irregolari. Come oggi, provenivano quasi tutti dal martoriato Corno d'Africa (soprattutto Eritrea e Somalia) e dall'Africa subshariana occidentale. Il Rais non andava per il sottile. Aveva costruito una serie di centri –meglio, prigioni – dove i disperati in cerca di una vita migliore vivevano in condizioni di miseria assoluta. Molti altri immigrati lavoravano in Libia, in clandestinità. Svolgevano mansioni inaccettabili per i libici, il cui tenore di vita era ben più alto di quello dei paesi vicini.
Le cose sono cambiate. Gheddafi è morto e da anni il paese è in balia del caos, delle milizie (sono oltre 100mila i combattenti) e dei movimenti estremisti, tra cui l'Isis. Il conseguente crollo della produzione petrolifera (un quarto rispetto al 2010), e quello del prezzo del barile, ha generato una crisi economica senza precedenti. I migranti sono pochi di più rispetto a prima. Ma se potessero, si riverserebbero tutti, e subito, sulle nostre coste. Se non c'è più Gheddafi ad agitare lo spettro della marea umana, c'è comunque un nuovo attore, molto più spietato, che controlla 200 km di coste: l'Isis. La Libia è vicina. La sua stabilizzazione è una priorità per evitare di trovarsi con un Califfato (ben più grande dell'attuale) sull'altra sponda del Mediterraneo. Ma anche per arginare un esodo di migranti che potrebbe presto assumere dimensioni bibliche.
Da due settimane a Tripoli si è insediato l'atteso Governo di unità nazionale. Il neo premier Fayez Serraj ha già sorpreso tutti per la capacità di creare consenso intorno a lui in tempi peraltro rapidi. È riuscito a conquistare il sostegno di potenti milizie e di 10 città. E ha portato dalla sua parte la compagnia petrolifera di Stato e la Banca centrale, con la sua dote di riserve in valuta pregiata. Quel che resta del forziere libico. Per quanto volenteroso, Serraj non può tuttavia farcela da solo. Controllare il territorio del quarto paese dell'Africa per estensione è indispensabile. Permetterebbe di rendere le cose più difficili ai jihadisti stranieri decisi a unirsi all'Isis e sarebbe essenziale per contrastare il traffico di essere umani. Secondo le autorità austriache 300mila migranti sono ammassati in fatiscenti campi pronti ad imbarcarsi. Per arginare questo fenomeno occorre tuttavia un esercito compatto. Serraj non ce l'ha. Non ancora. La missione internazionale, di cui l'Italia si è assunta la guida, a condizione che sia il Governo libico a chiederlo, dovrebbe fare in modo che Serraj arrivi a controllare quella parte di coste controllate anche da milizie e criminalità organizzata, da cui partono i barconi. I pattugliamenti lungo le porose frontiere meridionali da cui transitano i convogli di migranti africani saranno poi decisivi. Bisogna aiutare Serraj. Con una missione o con un sostegno politico e finanziario.Prima che ogni sforzo sia vano.
© Riproduzione riservata