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presidenziali americane 2016

New York arena per tre gladiatori. Come la Big Apple decide la sfida per la Casa Bianca

Martedì 19 aprile si terranno le primarie dei due partiti americani nello Stato di New York. Voto che pesa perché i democratici assegnano 291 delegati, i repubblicani 91: per trovare uno Stato con più delegati si dovrà attendere il 7 giugno quando voterà la California (172 delegati repubblicani e 546 democratici). Fino a quel momento altro Stato altrettanto importante sarà la Pennsylvania che vota il 26 aprile (e assegna 71 delegati repubblicani e 210 democratici). Sinora a livello nazionale la situazione vede fra i repubblicani Trump in testa con 742 delegati contro i 529 di Cruz e i 143 di Kasich (vince la nomination chi arriva a 1.237). Fra i democratici Clinton guida con 1.307 contro i 1.087 di Sanders (vince chi arriva a 2.383).

Hillary Clinton non è riuscita a prendere la metropolitana di New York perché non ha saputo strisciare la MetroCard, il suo sfidante Bernie Sanders ha fatto di peggio: pensava si entrasse ancora col gettone. Mentre lei rimediava andando nel Queens a ordinare pollo tandoori da portar via, lui volava a Roma per una visita al Vaticano ed al Papa, che New York aveva celebrato appena il settembre scorso. Un modo per rendere omaggio alla trinità dei politici newyorkesi, nota Politico, Irlanda, Israele e Italia, ma stavolta gli italo-americani sembrano più attratti da Trump. Il quale non perde occasione di celebrare l’attaccamento alla città, ma i primi che non lo voteranno sono i suoi figli Ivanka ed Eric che hanno dimenticato di registrarsi alle primarie repubblicane.

Scene dall’arena New York che tre aspiranti alla Casa Bianca su cinque rivendicano «è mia!». Mai come questa volta lo Stato di New York e soprattutto la città partecipano allo scontro fra i democratici Clinton e Sanders e sono banco di prova della nomination Trump. Tutti e tre, in un modo o nell'altro, sono di casa.

Non si ricorda un’elezione presidenziale in cui tre candidati fossero così legati alla stessa città, ognuno a modo suo. Clinton qui vive ed è stata senatrice dal 2001 al 2009. Sanders, figlio di immigrati ebrei polacchi, è nato e cresciuto a Brooklyn. Trump, origini nel Queens, ha case e palazzi, una Tower che porta il suo nome, in città ha creato la sua discussa fortuna e nei comizi sventola orgoglioso il suo accento. Mai come questa volta i «ritmi tribali» della politica newyorkese si sposano così bene con una campagna elettorale spesso violenta e mai scontata. Dove bisogna fare sintesi di gruppi etnici, associazioni, sindacati, grande finanza e small business, i professionisti ricchi di Park Slope e il disagio delle periferie come Binghamton, cittadina a nord dello stato, dove Ap ha trovato e intervistato un avvocato newyorkese, il titolare di una ditta “repubblicano con tendenze a sinistra”, un operaio edile l’ultima volta elettore di Obama: tutti e tre stavolta voteranno Trump.

Il voto a New York è imprevedibile come sinora è stata questa campagna e allora tanto vale puntare sull’appartenenza. Mentre un'infografica del New York Times misura a pezzi di pizza la percentuale di newyorkesità di Sanders, Clinton e Trump, i due tabloid della città decidono da che parte stare: il New York Post, proprietà di Murdoch, appoggia Trump; il Daily News dà il suo endorsement a Hillary Clinton che ha dalla sua anche il sindaco Bill De Blasio.

In campo repubblicano famosi politici si dividono. L'ex sindaco della tolleranza zero Rudy Giuliani dice che voterà Trump perché «è un amico personale, il migliore candidato, sarà un gran presidente» ma non è un endorsment vero e proprio perché Giuliani ha da ridire sull'organizzazione del magnate che «dovrebbe subire seri cambiamenti per il bene del candidato». L'ex governatore di New York George Pataki continua invece a scommettere sul candidato repubblicano gradito al partito, prima l'ormai ex Marco Rubio, adesso John Kasich che pure è molto indietro rispetto a Trump e Cruz ma secondo Pataki è l'unico dei tre che potrebbe battere sia Clinton sia Sanders.

Mentre in tutto il Paese si marcia per ottenere il salario minimo a 15 dollari, la manifestazione “Fight for $15” arriva in città la sera del gala repubblicano a Midtown, Grand Hyatt Hotel, 800 invitati, 1000 dollari a persona, Trump ospite d'onore che proclama «è bellissimo tornare a New York. Adoro parlare in questo palazzo perché l'ho costruito io». Un discorso di 23 minuti in cui il candidato repubblicano ripercorre le tappe della sua carriera di costruttore, i rischi che ha corso, vanta un tocco magico, dice che ha successo dove gli altri falliscono, sa come resuscitare una città in difficoltà. Nel racconto di The Donald, tutto inizia proprio al Grand Hyatt costruito durante la crisi della metà anni 70, quando, ricorda, «la città era morta», citazione del celebre titolo del 1975 del Daily News «Ford To City: Drop dead», ovvero il rifiuto del presidente repubblicano Ford di aiutare la città vicina alla bancarotta con un salvataggio federale. Sostiene Jessica Proud, portavoce del partito in città, che da decenni non si vedevano tanti ospiti-supporter all'annuale evento di raccolta fondi di un partito che qui non governa dal 2001, dai tempi dell'amico Giuliani. Tocca al Wall Street Journal, quotidiano conservatore della finanza che pure potrebbe trovare nel magnate il suo naturale candidato, notare che Trump sbandiera a destra e a manca appartenenza a Big Apple ma attacca da mesi immigrati e libero scambio - le due cose che «hanno reso grande NYC», per parafrare il suo stesso slogan.

L’avversario Ted Cruz è però eclissato, nei mesi scorsi ha criticato i «valori di New York» di The Donald, da allora i media americani sono impegnati a interpretare cosa volesse dire, lui costretto a chiarire «non è un codice per dire ebrei» «mi riferivo solo ai democratici, a quella parte troppo liberal» - intanto i tabloid in città gli consigliavano di prendere l’«F U train». Trump ha quindi avuto buon gioco a rispondere che questi valori sono l'onestà, l'abitudine a parlare chiaro e diretto, la capacità di lavorare duro, l'energia. Un amore non del tutto corrisposto. L’altra sera all'Hyatt mentre il magnate ricordava il sacrificio di polizia e vigili del fuoco nei giorni dell'11 settembre, Reuters contava 11 persone arrestate tra la folla in piazza contro di lui - abituale coreografia dei comizi del miliardario in giro per gli Stati Uniti – slogan dei manifestanti “NYC rifiuta il partito dell'odio”. Interessante, secondo i sondaggisti, sarà vedere chi fra il governatore dell'Ohio Kesich e lo stesso Trump prevarrà a Long Island, l’isola che racchiude ricchezza, povertà, ceto medio in difficoltà, una storia di relazioni difficili fra bianchi e i gruppi immigrati in crescita, casa di quei piccoli imprenditori che fanno fatica ad andare avanti e non sono immuni agli anatemi trumpiani contro il sistema.

Martedì la New York repubblicana verificherà insomma quanto è anti-establisment e scontenta quindi filo-Donald, quanto è disposta a puntare sul candidato più «vitale», come da endorsment del New York Post.

Tutto sommato un test meno violento di quello democratico con Clinton e Sanders che a Brooklyn dove ha stabilito il quartier generale lei un anno fa e dove è nato e cresciuto lui, se le sono date senza riguardi su super Pac e Wall Street. E non poteva non essere che così nella più popolosa delle cinque circoscrizioni con Sanders che accusa Clinton di fare il gioco della Grande Finanza e dei super-predatori, e Clinton sulla difensiva comunque in vantaggio di 17 punti secondo l'ultimo sondaggio del Wall Street Journal. Prima però che Clinton risultasse sconfitta nel confronto in quella Brooklyn che conta 945.600 dei tre milioni di newyorkesi registrati alle primarie democratiche (5,8 milioni nell’intero Stato).

Sanders a New York capirà se potrà ancora sperare di battere Hillary ma una rivista liberal e sbarazzina come il New York Magazine non si lascia affascinare dalla retorica sull'ineguaglianza dei salari di Bernie che piace tanto ai millennial - i giovani elettori che hanno adottato il 74enne senatore del Vermont. E titola: Sanders porta la sua crociata populista in Vaticano.

Clinton ha un legame più recente con la città ma ha l’appoggio dei leader delle comunità ebreo ortodossa e caraibico-americane; Sanders oscilla fra il sostegno del regista Spike Lee e la diffidenza di molti rabbini come David Niederman che intervistato dal New York Times gli rimprovera di «minimizzare le sue origini ebraiche». I fan di Hillary sottolineano che Bernie non ha poi tutti questi legami con Brooklyn visto che dopo il diploma alla James Madison High School si trasferisce dal Brooklyn College all’Università di Chicago. Lo staff di Sanders replica che in una manifestazione nel Bronx il 31 marzo scorso il senatore è riuscito ad attirare 18.500 persone. Hank Sheinkopf, uomo che ha lavorato negli staff del sindaco Bloomberg, del governatore Spitzer e del presidente Clinton traccia un confine molto newyorkese: «Bernie è tosto, ha buone chance. Potrebbe vincere? Sì. È probabile? No».

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