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Banche, titoli di Stato per 1.850 miliardi

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AREA EURO

Banche, titoli di Stato per 1.850 miliardi

Se per le banche il mondo non è stato più lo stesso dopo il 15 settembre 2008, cioè la bancarotta di Lehman brothers, per il mercato dei titoli di Stato si è aperta una nuova era dopo il 19 ottobre 2010, la famosa passeggiata a Deauville di Angela Merkel e Nicolas Sarzoky.
Passeggiata durante la quale fu stabilito che nell’Eurozona anche i creditori privati avrebbero partecipato al salvataggio di uno Stato in difficoltà accollandosi parte delle perdite. Cosa che avvenne poi nel 2012 con il PSI, private sector involvement, della ristrutturazione del debito pubblico greco. Il titolo di Stato in euro non è da allora, formalmente e sostanzialmente, “credit risk free”. Gli effetti di Deauville si sentono ancora oggi perché ispirano il dibattito sui pro e contro della revisione della disciplina prudenziale delle esposizioni delle banche verso i debitori sovrani, disciplina che ora assegna al titolo di Stato un “rischio zero” e quindi ne prevede un trattamento preferenziale (che si estende al calcolo di collaterali ed haircut, alle grandi esposizioni, ai titoli definiti altamente liquidi e a Solvency II) rispetto ad altre esposizioni.

Le banche nell’area dell’euro, tutte, continuano a trarre vantaggio da questa “concessione” normativa: detengono 1.850 miliardi di titoli di Stato in euro (in media 5,8% degli asset totali) non avendo limiti sull’entità dell’esposizione e senza alcun assorbimento di capitale, incassando ora un notevole aumento della redditività dato dal carry trade (costo del finanziamento più basso rispetto al rendimento del bond), e usando l’abbondanza dei titoli come collaterale per le operazioni Bce e per soddisfare i requisiti più stringenti sulla liquidità.
L’era post-Deauville, tuttavia, è segnata da un altro evento di portata sistemica e senza precedenti: le banche italiane, un po’ di loro iniziativa ma soprattutto incoraggiate da una pressante moral suasion, si sono riempite di titoli di Stato del proprio paese (200 miliardi di euro e più nel 2011-2012) anche in asta e per assorbire le vendite massicce provenienti soprattutto da portafogli esteri: questo evitò il collasso e la richiesta di aiuti al fondo salva-Stati. Le banche spagnole hanno fatto altrettanto ma un aiuto esterno, anche se ridotto, la Spagna dovette comunque chiederlo. Per questo, le banche italiane detenevano in base alle statistiche Bce al febbraio 2016 uno stock pari a 455 miliardi di titoli di Stato (quasi tutti italiani) equivalenti all’11,4% dei total asset (il rapporto più alto tra i paesi principali) e quelle spagnole 291 miliardi pari al 10,2% dei total asset.

Le modifiche allo studio delle norme prudenziali sull’esposizione verso debitori sovrani, tuttavia, rischiano di avere ripercussioni negative per tutto il sistema, non solo per le banche italiane e spagnole. Uno studio (occasional paper) pubblicato ieri dalla Banca d’Italia mette bene in evidenza come i costi dati dall’introduzione dell’accantonamento di capitale e/o da un tetto al possesso dei titoli di Stato sarebbero maggiori rispetto a benefici molto incerti e modesti. In linea di principio, nel caso di default dello Stato la solidità della banca sarebbe comunque minata dalle conseguenze devastanti del tasso di insolvenza di imprese e famiglie, recessione e perdita di fiducia dei mercati e non tanto dai bond in bilancio. La ponderazione del rischio Stato rischierebbe di fare leva sui rating, assegnando alle agenzie di rating un peso maggiore sul legame rischio/banca-rischio/Stato, amplificandolo. Un limite al possesso dei titoli di Stato di un singolo Paese innescherebbe forti vendite, volatilità, calo dei prezzi del bond e l’imposizione della diversificazione costringerebbe alcune banche ad acquistare bond “core” a rendimento negativo. Intesa San Paolo ha anticipato il problema e dimezzato da 60 a 30 miliardi i titoli di Stato italiani in portafoglio, come rivelato dal cfo della banca, Stefano Del Punta, al congresso Assiom-Forex, portando il portafoglio di governativi in un rapporto 50% e 50% tra titoli di Stato italiani ed esteri(in precedenza il rapporto era 93,7%).

Non da ultimo, in via indiretta la detenzione di titoli di Stato è già entrata nel mirino dei regolatori in occasione degli stress test del 2014 dove gli scenari avversi sull’andamento dei bond hanno portato a chiedere ad alcune banche italiane di rafforzare il capitale. Un altro intervento in atto sulle consistenze di titoli di Stato nella pancia delle banche riguarda il cosiddetto leverage ratio introdotto da Basilea III, un complemento ai requisiti di capitale ponderato per il rischio. La Commissione europea potrebbe introdurre una legislazione ad hoc imponendo un requisito minimo sulla base delle raccomandazioni del comitato di Basilea per la supervisione bancaria, che puntano al gennaio 2018. L’Eba (l’autorità bancaria europea) pubblicherà entro la fine di quest’anno un suo parere sul leverage ratio, come richiesto dalla Commissione. Nel denominatore di questo rapporto sono stati inclusi i titoli di Stato perché si tiene conto di qualsiasi asset a prescindere dal rischio, quindi anche zero risk: per ora l’indirizzo è che le banche possono aumentare l’esposizione ai titoli di Stato fino a un leverage ratio del 3% senza dover accantonare capitale aggiuntivo. Ma la questione è aperta.