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Bce, cosa avrebbe fatto un presidente non italiano al posto di Draghi?

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polemica a distanza con i tedeschi

Bce, cosa avrebbe fatto un presidente non italiano al posto di Draghi?

«Pensate che un presidente non italiano avrebbe adottato una politica monetaria diversa?». Ecco il risultato, peraltro inevitabile, delle aspre critiche del ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble alla Banca centrale europea: ha portato al centro della discussione due temi che non dovrebbero mai occupare il dibattito sulle scelte della Bce: le persone e, soprattutto, la loro nazionalità. Il presidente Mario Draghi non ha però potuto evitare di parlarne. Perché è evidente che dietro le critiche dei politici - e attraverso loro di tante aziende e cittadini - tedeschi c’è l’idea che un presidente loro connazionale, un Jens Weidmann o addirittura un Axel Weber, avrebbe fatto diversamente.

La verità è un’altra: un presidente tedesco si sarebbe trovato spesso, troppo spesso, in minoranza, all’interno del board, e non sarebbe riuscito a imporre la propria visione dell’economia agli altri partner, complicando le cose. La lunga difesa di Draghi della politica e dell’indipendenza della Bce - con il sostegno unanime di tutto il consiglio direttivo - si è basata molto su tre fatti che sono una risposta al sottinteso della “superiorità” dell’impostazione tedesca: la banca centrale deve guardare a tutta Eurolandia, e non soltanto alla Germania; il suo mandato è stato definito dal Trattato - su ispirazione della cultura economica tedesca, peraltro - e la Bce quindi «obbedisce alle regole, non ai politici»; quasi ovunque nel mondo la politica monetaria è stata analoga a quella europea (che anzi, si può aggiungere, è stata rallentata proprio dall’influenza dell’impostazione tedesca).

Parole, si potrebbe pensare: la realtà economica non guarda a queste cose. Non è così, in un mondo non certo meccanico in cui le aspettative contano moltissimo. «Un dibattito corretto e vivo è benvenuto», ha detto Draghi: permette alla banca centrale si spiegare meglio le proprie scelte. «Critiche di un certo tipo potrebbero però essere interpretate come un danno all’indipendenza della Banca centrale» e dare un colpo alla «credibilità percepita», portare un rinvio di investimenti e della stessa domanda di prestiti e quindi a un ritorno più lento dell’inflazione a livelli normali, «e quindi richiederebbe una politica monetaria più espansiva». In un altro contesto sembrerebbe una ripicca, quasi una minaccia - se le critiche continuano, noi reagiremo - ma non è così. Purtroppo: i danni di queste esternazioni possono essere notevoli, la credibilità, la reputazione nel mondo della politica monetaria (e del credito in generale) sono centrali; e l’indipendenza della banca centrale è uno strumento per assicurarle.

La difesa di Draghi - necessaria, ma di una necessità di cui si sarebbe volentieri fatto a meno - si è estesa anche alle assicurazioni e ai fondi pensione tedeschi, che alimentano la polemica: i tassi - ha detto il presidente - sono o sono stati bassi dappertutto e negli Stati Uniti, per esempio, fondi pensione e compagnie assicurative sono state colpite meno, anche per il diverso modello di business e le diverse regole. Il quantitative easing, peraltro - ha aggiunto - ha generato importanti capital gain a vantaggio proprio di quelle compagnie, che sono state tra i più attivi venditori. Soprattutto «i tassi reali sono oggi più alti di quanto fossero 20-30 anni fa»: tenendo conto dell’inflazione bassa la situazione non appare così distante da quella “normale”. Senza dimenticare che i tassi bassi «sono un sintomo della bassa crescita e della bassa inflazione, non un risultato della politica monetaria».

Più difficile difendere le scelte della Bce sulla base dei risultati: l’inflazione è bassa e «tornerà negativa» prima di salire lentamente e le aspettative restano deboli; anche se la situazione reale - nelle parole del comunicato del consiglio direttivo - continua a migliorare. «Dobbiamo essere pazienti. Dobbiamo aspettare», ha detto più volte Draghi, ricordando che gli effetti delle misure possono ritardare. Il presidente è tornato a sottolineare il fatto che la politica monetaria, in altri paesi, va in direzione opposta a quella di Eurolandia e ha così suggerito che l’euro, in rialzo da un anno, potrebbe tornare a calare. Ha anche assicurato che, se dovesse manifestarsi un «indesiderato irrigidimento delle condizioni finanziarie, tale da alterare le prospettive di medio termine, il consiglio direttivo è pronto ad agire, usando tutti gli strumenti disponibili».

Anche la leva dei tassi? Draghi non ha escluso nulla, e il comunicato continua a parlare di tassi che resteranno a lungo agli attuali livelli «o più bassi». La questione, ha però precisato, non è quella di un «sì» o un «no» a un ulteriore taglio, ma alle sue dimensioni: i tassi negativi - sui depositi alla Bce sono al -0,40% - non hanno creato problemi, neanche sulla redditività delle banche («nel loro aggregato», ha precisato il presidente), ma non si può dire che le cose andranno così bene a qualunque livello vengano portati.

Al momento, comunque, la Bce resta concentrata sull’applicazione delle misure prese a marzo. Oggi sono stati forniti i dettagli degli acquisti di corporate bond, che partiranno a giugno: la Bce interverrà anche sul mercato primario - all’emissione, quindi - escludendo solo i titoli bancari (ma non quelli di eventuali case madri non bancarie) e le società di asset management, acquisendo fino al 70% dell’emissione, con scadenze che varieranno da sei mesi a trenta anni.

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