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Aprile 1986, venti di guerra Usa-Libia e nube radioattiva: un…

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PASSATO E PRESENTE

Aprile 1986, venti di guerra Usa-Libia e nube radioattiva: un doppio allarme per l'Italia

La primavera del 1986, insieme con le rondini, porta anche minacciosi venti di guerra tra Stati Uniti e Libia. La VI Flotta americana, nell'ultima decade di marzo, effettua manovre aeronavali a poche miglia dalle coste libiche: nelle capitali europee e nell'opinione pubblica crescono i timori per un allargamento del conflitto, anche se le unità navali sovietiche presenti in zona si limitano a controllare a distanza l'evolversi della situazione. Il 24 marzo due motovedette libiche vengono affondate dalle navi Usa e la Libia lancia alcuni missili del tipo Sam contro i caccia americani, senza colpirli.

Ma dopo l'attentato del 5 aprile in una discoteca di Berlino, frequentata dai militari americani (un soldato ucciso e molti feriti), il presidente Reagan vuole «mostrare i muscoli a Gheddafi», perché i servizi segreti Usa sostengono che la matrice dell'attentato è libica. Nella notte tra il 14 e il 15 aprile i caccia americani bombardano in due ondate successive Tripoli e Bengasi. Un aereo Usa, colpito dai libici, cade in mare e i due piloti perdono la vita, i morti libici sono invece quasi 40, nella maggior parte civili. I danni materiali del bombardamento sono ingenti.

I missili di Gheddafi su Lampedusa
Nello stesso pomeriggio del 15 aprile il colonnello Gheddafi allarma l'Italia scagliando verso la base Nato di Lampedusa due missili Scud, che falliscono il bersaglio ricadendo in mare. Una ritorsione, quella libica, poco comprensibile, perché il nostro paese aveva cercato soluzioni diplomatiche alla crisi nel Mediterraneo e proprio il giorno prima, per bocca del presidente del Consiglio Bettino Craxi, aveva criticato l'azione militare americana. Roma avverte Tripoli che darà risposta armata a ogni ulteriore atto di guerra, ma non ce ne sarà bisogno: la tensione andrà man mano calando.

Passano solo dieci giorni e la notte tra il 25 e il 26 aprile esplode il reattore 4 della centrale atomica di Chernobyl: errori umani e tecnica difettosa creano le condizioni per la catastrofe. Chernobyl, situata a poco più di 100 km a nord di Kiev, capitale dell'Ucraina e allora terza maggiore città dell'Urss, dopo Mosca e Leningrado, contava 25mila abitanti, mentre oggi è quasi disabitata.

La nube di Chernobyl sull'Europa
L'orologio segnava l'una e 23 minuti: fuoriescono circa il 50% di iodio e il 30% di cesio, disperdendosi nell'atmosfera, con un'emanazione di radioattività tra i 50 e i 250 milioni di Curie, quantità cento volte maggiore rispetto a quella delle bombe americane su Hiroshima e Nagasaki nel 1945. Anche il disastro giapponese avvenuto a Fukushima nel marzo 2011 ha raggiunto lo stesso livello di classificazione sulla scala internazionale (il settimo), ma l'incidente di Chernobyl è considerato dagli esperti più grave, per la velocità, l'entità della fuga di materiale radioattivo e gli effetti sulla salute e sull'ambiente. Nell'immediato i morti furono 31, ma resta incalcolabile il numero delle vittime, stimate in migliaia, che in seguito all'esposizione diretta alle radiazioni si sono ammalate e hanno poi perso la vita.

Uno dei fattori di maggiore preoccupazione per la salute della popolazione (pur non direttamente esposta) deriva dal rilascio, dalla diffusione e dal successivo depositarsi sul terreno del Cesio-137, un radionuclide (isotopo radioattivo) che dimezza la sua radioattività in circa 30 anni e che può penetrare nella catena alimentare, contaminando latte, pesci e vari prodotti agricoli. Purtroppo nelle zone limitrofe a quelle evacuate, sia in Ucraina che in Bielorussia, spesso le famiglie non hanno avuto alternative al nutrirsi con i prodotti del proprio orto.

La «glasnost» di Gorbaciov alla prova
La nube radioattiva sprigionata dal disastro fu portata dai venti nei cieli di mezza Europa e non solo. Il primo allarme giunse dalla Svezia il 28 aprile, quando venne registrata radioattività anomala nel paese scandinavo. Il 29 arrivò in Polonia, Germania, Austria, Romania e Finlandia; il 30 in Svizzera e Nord Italia, due giorni dopo in Francia, Benelux, Gran Bretagna e Grecia, sino in Turchia e in Israele.

Mentre il viaggio delle polveri contaminate seminava paure e polemiche quasi dovunque nel mondo, la «glasnost» di Gorbaciov affrontava una prova molto ardua: le autorità sovietiche confermavano l'evento tre giorni dopo, con un dispaccio dell'agenzia Tass su «un incidente di media gravità alla centrale nucleare di Chernobyl» e un comunicato del consiglio dei ministri, letto in tv, nel quale si parlava di due morti in seguito all'esplosione e dell'immediato ordine di evacuazione per gli abitanti di Chernobyl. Soltanto il 14 maggio avveniva la prima ammissione pubblica di errori fatta dal segretario generale del Pcus Mikhail Gorbaciov: «Una sventura è scesa su di noi. Il peggio è passato, ma è ancora presto per dire la parola fine».

In Italia stop a latte fresco e insalata
A partire dal 2 maggio in Italia, come misura precauzionale, si vieta per 15 giorni la vendita e il consumo di verdura stagionale a foglia larga e la somministrazione di latte fresco ai bambini fino a dieci anni e alle gestanti. Sui mercati agroalimentari si registrano pesanti ripercussioni, che ben presto coinvolgono anche i prodotti non direttamente interessati al provvedimento di messa al bando per il pericolo delle radiazioni. Vistosa, ma ovvia, l'impennata dei prezzi degli ortaggi ammessi regolarmente alla vendita: le quotazioni dei pomodori e delle patate registrano aumenti superiori al 50 per cento.

A Roma gli abituali clienti della Centrale rimandano indietro i furgoni con il carico intatto, anche la Centrale di Milano ha una resa molto alta. Chi allora aveva in famiglia figli piccoli ricorderà i pacchi depositati in cucina dei cartoni di latte a lunga conservazione, scomparso quasi subito dagli scaffali dei supermercati. Passeranno alcune settimane prima che il presidente del Consiglio Craxi, parlando ai microfoni della Rai, inviti i cittadini italiani a «tornare serenamente alle nostre abitudini alimentari».

I referendum sul nucleare del 1987 e 2011
Una “ricaduta” di Chernobyl - non di radioattività, ma di carattere politico - fu per il nostro paese il risultato dei tre referendum del novembre 1987, quando vennero bocciati a larga maggioranza la localizzazione delle centrali atomiche, la partecipazione alla costruzione delle centrali all'estero e i contributi ai comuni che accettavano centrali sul loro territorio: di fatto, anche se non “de jure”, fu sancita dalle urne l'uscita dell'Italia dal nucleare.

Per più di vent'anni la questione nucleare in Italia resta negli archivi della cronaca e della storia, ma nel 2008 il governo Berlusconi approva il piano triennale per lo sviluppo 2009-2011 (poi votato anche dal Parlamento) che disegna il ritorno del paese al nucleare, con l'obiettivo di arrivare a coprire il 25% del fabbisogno elettrico nazionale. Viene prevista la realizzazione di quattro impianti localizzati su due o tre siti. Anche questa volta parte la raccolta delle firme per il referendum abrogativo, indetto nel giugno 2011 insieme ai quesiti sulla privatizzazione dell'acqua e sul “legittimo impedimento” del presidente del Consiglio.

Ma tre mesi prima della consultazione popolare avviene il disastro della centrale atomica giapponese di Fukushima Dai-ichi, a seguito del terremoto e del maremoto dell'11 marzo: alle urne viene agevolmente superato il quorum del 50% più uno degli elettori e c'è un boom di “sì” per tutti i quesiti. Il ritorno del nucleare viene respinto dal 94,5% dei votanti.

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