Il King Abdullah Financial District, alle porte di Riad, era stato costruito sul modello del Canary Warf di Londra, per essere il cuore finanziario dell’Arabia Saudita e della regione: è semivuoto dall’inaugurazione, cinque anni fa, molto prima che il prezzo del barile crollasse.
Nessuna istituzione internazionale, privata o multilaterale, trasferisce interessi e investimenti in un Paese a mono cultura petrolifera e medievale quanto a riforme.
Ma ecco “Saudi 2030 Vision”, approvato ieri dal re e dal governo. È la prima rivoluzione economica e non solo, affrontata dall’Arabia Saudita dalla sua fondazione nel 1932. L’obiettivo finale è a soli 14 anni da oggi ma già nel 2020, sostiene Mohammed bin Salman, il figlio del re e vice principe ereditario, «penso che saremo capaci di vivere senza petrolio: ne avremo bisogno ma potremo vivere senza». Non è un’affermazione di poco conto se al momento quasi l’80% del reddito saudita viene dal greggio e se sotto la sabbia e i fondali marini attende di essere sfruttata una riserva da 260 miliardi di barili.
Di come cambierà il regno da qui al 2030, è il principe Mohammed a rendere noti i punti salienti in un’intervista ad al-Arabiya, la tv di famiglia: i dettagli non sono ancora stati pubblicati. Stabilito che il valore di Saudi Aramco è di oltre 2mila miliardi di dollari (fino ad ora era un segreto di stato), la compagnia petrolifera nazionale sarà trasformata in una holding e il 5% sarà messo sul mercato. Nascerà poi un fondo sovrano da 2mila miliardi (l’Arabia Saudita è l’unico Paese della regione a non averne uno) per sviluppare gli investimenti nel settore non petrolifero. Saranno aumentate tasse e tariffe: una sul valore aggiunto, una sui beni di lusso, pedaggi stradali, benzina, riduzione delle spese militari e tagli pesanti sui sussidi.
Nel 2020, quando il principe Mohammed promette che l’Arabia Saudita potrà vivere senza greggio, il Paese incomincerà ad accumulare introiti non petroliferi da 100 miliardi di dollari l’anno. Occupati a estrarre greggio, i sauditi hanno ignorato di avere scorte minerarie altrettanto favolose: oro, zinco, fosfati, il 6% delle riserve mondiali di uranio, «un altro petrolio che non abbiamo ancora sfruttato», ammette Mohammed.
Nel regno di monarchi ottuagenari, l’uomo alla guida di tutto questo è poco più che trentenne. Mohammed bin Salman, della cui ambizione lo zio re Abdullah morto nel gennaio 2015, diffidava, non è solo vice erede e figlio prediletto di re Salman. Come ministro della Difesa cerca di dare sostanza alle ambizioni saudite di potenza regionale, dallo Yemen alla Siria; come capo del Consiglio per lo sviluppo economico sta guidando “2030 Vision”. Che non è solo un distacco dal petrolio e un ribaltamento dell’economia: è anche una rivoluzione socio-politica in un Paese dove due terzi degli occupati lavorano per lo stato, l’11,7% della manodopera è disoccupata, milioni di sauditi sono sotto-occupati (pagati per non fare nulla). E dove la maggioranza della metà della popolazione – le donne – non produce ricchezza.
Non c’è latitudine politica nella quale l’esortazione «andate tutti a lavorare» garantisca consenso. Il principe Mohammed ha capito che non basta produrre 10 milioni di barili al giorno per riempire gli uffici vuoti del King Abdullah Financial District di Riad. Per diventare una capitale finanziaria occorre quel dinamismo e quell’“ecosistema” che il Paese più reazionario del mondo non ha. Ma lo ha capito anche il potente clero wahabita col quale gli al Saud strinsero 300 anni fa un sodalizio di potere e di legittimità? In gioco qui non c’è la democrazia, probabilmente nemmeno la libertà delle donne di guidare le loro auto. Ma se un Paese che galleggia su un mare di greggio non più così redditizio, decide di cambiare, non tutti coloro che hanno galleggiato per decenni e senza sforzi apprezzeranno le riforme.
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