NEW YORK - L'angoscia e la crisi d'identità che fanno tremare il partito repubblicano davanti alla trionfale cavalcata di Donald Trump verso la nomination hanno da oggi un nome e un volto: quello dei Bush.
Non solo perché Trump ha seppellito l'epigono della dinastia conservatrice americana di maggior successo dell'era recente, polverizzando fin dalle prime battute delle primarie l'ex governatore della Florida Jeb. Ma perché in queste ore i due grandi esponenti della famiglia, George il vecchio che fu vice di Ronald Reagan e poi nello Studio Ovale lui stesso, e George W. il giovane, che fu il presidente dell'11 settembre, hanno compiuto un nuovo gesto senza precedenti in una stagione politica al cardiopalma: hanno preso le distanze dal “Donald” vincitore. Chiarendo che non solo non intendono oggi commentare sulla campagna che porterà a decidere nelle urne di novembre il nuovo comandante in capo della maggior superpotenza al mondo. Non intendono neppure partecipare nei prossimi mesi in alcun modo alla campagna.
La rottura non potrebbe essere più profonda. Una rottura della tradizione degli stessi Bush, “nobiltà” repubblicana che negli ultimi scontri elettorali non aveva mai mancato di spendersi a favore dei candidati presidenziali del partito pur se apparsi probabili perdenti, cioè John McCain e Mitt Romney. E rottura, soprattutto, in profondità tra le anime dentro il partito, con il rischio che due delle tradizionali e più esperte correnti della grande “tenda” repubblicana si ritirino quantomeno sull'Aventino: quella moderata e di antico lignaggio del vecchio Bush, che se conta pochi voti produce tuttora una influente elite al vertice del partito e di possibili suoi governi. E quella più conservatrice e religiosa che era stata mobilitata con efficacia dal giovane George W. Un patrimonio politico, insomma, non da poco.
L'insofferenza, impotenza e rabbia dei Bush trova eco anche in numerosi attuali esponenti del partito, presi tra la spinta a sostenere un candidato ormai certo e con lui l'obiettivo di riconquistare la Casa Bianca, e l'evidente antipatia - nonché paura di danni irreversibili al partito prima che eventualmente al Paese, di sostanza e d'immagine - per l'outsider Trump che ha rovesciato tutti i pronostici degli analisti e i disegni dell'establishment. Kelly Aylotte, influente senatrice del New Hampshire, ha espresso questa impossibile schizofrenia con una contorsione verbale esemplare: ha fatto sapere che «sosterrà» Trump candidato, ma che «non lo appoggerà».
Altri stanno studiando strategie ultra-adattabili che qualche maligno potrebbe tacciare di eccessivo opportunismo anche per una scienza flessibile come la politica : rivendicare Trump in circoscrizioni e regioni de Paese dove la sua presa populista, protezionista e anti-immigrati è evidente. Esecrarlo dove invece viene visto come il fumo negli occhi. Una strategia che forse può dare risultati a livello locale, “sganciando” la corsa alla presidenza da quella ai seggi congressuali, ma che a livello nazionale potrebbe diventare semplicemente il simbolo dell'implosione di un partito che ancora solo pochi anni or sono aveva il volto di una dinastia.
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