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ora il candidato miliardario ha bisogno di fondi

Ciclone Trump, che fine hanno fatto i lobbisti di Washington? La grande battaglia per i soldi fra i repubblicani

(Afp)
(Afp)

Mentre in Indiana Donald Trump conquistava la nomination alla Casa Bianca per abbandono degli avversari, a Washington uno dei più influenti lobbisti scherzava «ora vado all’ultimo piano e mi butto di sotto», e qualche ottimista collega concedeva «in fondo Donald non è poi così male». Il resoconto delle cronache americane di quelle ore è rimasto un po' in ombra rispetto alla scena rubata dal nominato ma la questione soldi emerge qua e là in questi giorni di assestamento post sisma. Il partito repubblicano travolto dall'outsider che guida la corsa alla Casa Bianca, deve riprendersi dallo shock e ricomporsi, ma la questione dei finanziamenti e dei movimenti delle lobby connaturata alla politica Usa, misura se possibile uno spaesamento ancora più evidente di quello dei politici Gop (Grand Old Party, repubblicani).

Il sito The Hill ha raccolto un po' di commenti di lobbisti sulla possibile presidenza Trump. C'è chi come Jeff MacKinnon, dirigente di Farragut Partners, dice «oh dio mio, questo non è un sogno, non pensavo che sarebbe accaduto così in fretta, la gente qui è stata presa alla sprovvista, ma non è la fine del mondo: a Washington ad ogni azione corrisponde una super-reazione»; c'è chi da repubblicano si dice depresso e assicura che tutti i repubblicani si sentono come lui. McKinnon spiega invece che adesso è tutto un affaticarsi per essere rilevanti e trovare «un’uniforme» con cui partecipare al gioco ma non è affatto facile.

I lobbisti, di solito in contatto continuo con i comitati elettorali di partiti e candidati e parte attiva delle campagne, discutono in questi giorni su come Trump finanzierà una campagna elettorale miliardaria perché la retorica sin qui vincente «sono indipendente perché sono ricco e mi finanzio da solo» non basta più. Servono soldi. Trump stesso ha ammesso che ha sborsato 40 milioni di dollari di tasca sua e adesso ha bisogno di aiuto. Sarà quindi interessante osservare come si comporterà se e quando accetterà finanziamenti, se sarà in qualche modo «addomesticato», cosa che sinora non è riuscita a nessuno dei grandi nomi del suo partito i quali o rimangono a distanza come lo speaker della Camera Paul Ryan o fanno manovre di avvicinamento, come Chris Christie ripagato con la nomina a capo del transition team, l’ex avversario Ben Carson, l’ex sindaco di NYC Rudy Giuliani e ultimo il senatore McCain.

Si aspettano dunque le mosse di un nominato che ha ammesso di dover iniziare una mega raccolta fondi per una delle campagne più dispendiose di sempre ma non ha ancora la struttura per questo tipo di operazione, unica cosa che ha fatto sinora è stata chiamare Steven Mnuchin, ex partner di Goldman Sachs, a capo delle finanze della campagna. Quando Trump creerà una squadra, i lobbisti d’area repubblicana sperano di poter iniziare un dialogo consci delle difficoltà da entrambe le parti: Donald ha abbondantemente insultato i possibili finanziatori che dal canto loro non si fidano di lui. Fra i professionisti dei gruppi di pressione, c'è chi osserva che non sarà facile per Trump ricucire con una business community che ha finora preso a schiaffi, e aggiunge off the record che molti dei 500 executive lista Fortune non vedono il magnate di New York come collega o pari: tutte le critiche al libero commercio non hanno certo giovato.

D’altra parte questa reciproca antipatia si potrebbe risolvere per molti in un tirarsi fuori dalla gara presidenziale per concentrare le risorse sul resto, cioè sulle elezioni di Camera e Senato in questo momento in mano repubblicana. I pochi lobbisti che puntano su Trump notano che non occorre unanimità perché vi sia unità nel partito, l’ottimista osserva che tutto si potrebbe risolvere in una riedizione della presidenza Reagan, «alla fine scelse gente competente e la lasciò lavorare»; in fondo «quello che la gente ama di Trump è la sua decennale esperienza in tv, cosa che non lo distingue da altri politici di professione».

Altri attori di primo piano del grande gioco che è l’elezione del presidente Usa non sanno come interpretare la parte: una dozzina di grandi finanziatori Gop, era il bilancio a 24 ore dalla conquista della nomination, non finanzierà Trump. Invece Hillary piace a Wall Street che le dona 4,2 milioni - contro un 1% di finanziatori nel tempio della finanza che ha scelto Donald - e anche il partito democratico è messo bene: a fine marzo il comitato nazionale democratico ha raccolto 60 milioni di dollari contro i 14 dell'analogo organismo repubblicano, il Republican National Committee. Che cerca di minimizzare ma i soldi che mancano all’appello servono non solo a Trump ma ai deputati che vogliono vincere negli Stati chiave.

Emblematico il silenzio dei fratelli Koch. I deputati vicini ai due miliardari e grandi finanziatori dei repubblicani, Charles e David, che in passato hanno sostenuto anche i Tea Party, hanno fatto presente che i due petrolieri potrebbero non partecipare alla campagna o addirittura appoggiare Hillary. Un loro uomo, Mark Holden, ha confermato che il beneficiario dei soldi « sarà colui capace di ottenere il sostegno popolare grazie a un messaggio positivo sui temi di cui si vuole occupare senza ricorrere ad attacchi personali e senza denigrare l'avversario». Forbita dichiarazione che prende le distanze da Trump senza nominare Clinton. Un portavoce dei Koch ha poi dovuto correggere, l'appoggio a Hillary è fuori discussione, troppo statalista, ha detto, ma restano queste dichiarazioni dal sapore equilibrista tipico del politico, se non fosse che le presidenziali americane 2016 sembrano un quadro capovolto in cui uno dei candidati fonda il suo potere mediatico sulla contraddizione e chi mette i soldi fatica a trovare le parole che non sembrino di rottura e resa.

Altri finanziatori dei repubblicani non hanno più intenzione di firmare assegni, così la battaglia per i soldi che si sta svolgendo a porte chiuse, lontano da riflettori e tv, si fa più feroce. Sempre perché in ballo non c'è solo la presidenza ma la maggioranza al Congresso che i repubblicani non vogliono perdere, Trump o no. «Ci sarà una grande battaglia per i soldi» dice Curt Anderson, ex direttore della Commissione nazionale del partito repubblicano, uomo di vertice del Gop e stratega di lungo corso. «Sarà un continuo tira e molla. Abbiamo un nominato che non piace a tutti, di conseguenza ci saranno molte manovre». Brad Freeman, banchiere di Los Angeles che aveva donato più di un milione di dollari al Super Pac a favore di Jeb Bush e che negli anni ha dato centinaia e centinaia di dollari ai deputati, ha detto che lui continuerà a donare a «uno dei candidati presidenziali» ma non ha specificato chi e quale partito. «Deciderò non prima di ottobre».

Così non è solo incerta la scelta degli elettori ma anche quella dei finanziatori: battaglia feroce e fluida fra silenzi e rinvii. «Osserveremo l'evolversi della situazione con attenzione» dice Lawrence Bathgate, importante avvocato del New Jersey ed ex tesoriere capo del RNC «è una situazione davvero insolita». «Mia moglie vorrebbe che lasciassi perdere» confessa Anthony Gioia, altro importante donatore del partito repubblicano ed ex ambasciatore.

Non si esclude che alla fine il comitato e Trump trovino un accordo per non farsi troppo male, persino essere d'aiuto l'uno all'altro, ma resta il problema: Donald attrae pochi finanziatori. Una buona notizia per lui è che qualcuno ha rotto l'embargo. È Sheldon Adelson, magnate dei casino di Las Vegas, uno degli uomini più ricchi d'America e tra i maggiori finanziatori del Gran Old Party. Sosterrà Trump «sono un repubblicano, e lui è un repubblicano. Lui è il nostro 'nominee''» ha detto al New York Times. «Ha vinto in modo onesto e chiaro» ha aggiunto l’uomo d’affari e sostenitore della causa di Israele (possiede anche il giornale Israel Hayom). La sua decisione può significare che altri donatori Gop seguiranno la stessa strada, ma rimangono in silenzio il miliardario degli hedge fund Paul Singer e la famiglia Ricketts, altro pezzo da novanta fra i finanziatori Gop e proprietari dei Chicago Cubs, «nessuna decisione è stata presa» fa sapere l'entourage. Giochi aperti.


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