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Ponte aereo per gli aiuti alla Siria

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Medio Oriente

Ponte aereo per gli aiuti alla Siria

  • –Alberto Negri

La buona notizia dal vertice di Vienna sulla Siria è che 18 città assediate riceveranno aiuti umanitari internazionali con un ponte aereo del World Food Program, l’agenzia alimentare dell’Onu. Quella meno convincente è la litanìa ripetuta ancora una volta in questi meeting: «Nessuno può vincere la guerra, solo la diplomazia è in grado di risolverla». Ma sappiamo che non è così: questa non è neppure una pace intermittente.

Bashar Assad era sull’orlo del baratro nel 2013, quando minacciavano di bombardarlo francesi e americani, poi aviazione e truppe russe lo hanno salvato nel settembre scorso. I Pasdaran iraniani combattono ad Aleppo, oltre che nelle pianure irachene, gli Hezbollah libanesi hanno conquistato il Qalamoun a ridosso del Libano, i curdi con le armi si sono ritagliati la loro zona autonoma nel Rojava, l’Isis ha perso quasi il 30% del territorio ma continua a controllare vaste aree strategiche. Chi ha ottenuto qualche cosa lo ha fatto impugnando il mitra, inutile girarci intorno, come sanno bene migliaia di profughi in fuga dal regime o dai jihadisti.

Le stesse tregue negoziate per “scopi umanitari”, come è successo a Vienna tra Usa e Russia, servono alle parti in conflitto per riorganizzarsi e avviare nuove offensive. Le popolazioni sono uno strumento del conflitto, ostaggi da manovrare. Altrimenti non si spiega come mai Aleppo continui a essere un feroce campo di battaglia. I rifornimenti ai ribelli arrivano da Nord, dalla Turchia, che un giorno dice di fare la guerra all’Isis e un altro bombarda i curdi. La Turchia è nervosa e ne ha qualche motivo. I russi la tengono sotto tiro con i missili, i curdi siriani costituiscono un incubo strategico che si riflette nel cronico conflitto interno con il Pkk che dura da oltre trent’anni.

Questa è una guerra di conquista e di posizionamento che si incrocia con le trattative diplomatiche. L’obiettivo dei protagonisti e dei loro sponsor internazionali è di ritagliarsi delle aree di influenza: la guerra in Siria ma anche in Iraq forse non porterà a nuovi confini, assai complicati da negoziare sul piano internazionale, ma è già da tempo una sanguinosa spartizione in zone militarizzate e linee di faglia etniche, settarie e culturali tra arabi, turcomanni, curdi, persiani, sunniti, alauiti, sciiti, cristiani, solo per limitarci alle suddivisioni principali.

La Turchia minaccia regolarmente di entrare in territorio siriano per creare una sua “fascia di sicurezza”: qui potrebbe fare ciò vuole, sistemare dei rifugiati “in esubero”, aprire linee di passaggio per ribelli e jihadisti con cui aveva stretto alleanze in questi anni. È ancora difficile prevedere quando e come ci sarà un’offensiva contro il Califfato per Raqqa in Siria e per Mosul in Iraq, ma queste operazioni non verranno scatenate se non con accordi preliminari. Mosul non può essere conquistata dalle milizie sciite o dai peshmerga curdi ma da un esercito nazionale che abbia per lo meno una componente sunnita e araba.

Ma soprattutto c’è da capire che cosa accadrà se i gruppi jihadisti come Isis e Jabat al Nusra verranno battuti. Dove andranno i combattenti? Verranno chiuse le vie di fuga? Probabile. E che fine faranno i prigionieri e la legione straniera dei foreign fighters? Come verranno reintegrati nella società siriana o irachena, che per altro non esistono più da un pezzo? Questi sono alcuni interrogativi non secondari dopo quanto già sperimentato in Afghanistan e Iraq.

La spartizione in aree di influenza vuol dire che l’Iran non rinuncerà a Damasco perché l’asse Baghdad- Assad-Hezbollah permette alla repubblica islamica di attraversare il Medio Oriente dalla Mesopotamia al Mediterraneo, la maggiore proiezione strategica della Persia contemporanea che neppure lo Shah si poteva permettere di immaginare. La rivalità sciiti-sunniti è destinata a continuare, soprattutto tra Teheran e l’Arabia Saudita. Il sostegno ad Assad, sul quale in prospettiva i russi non sono d’accordo come ha fatto capire ieri il ministro degli Esteri Lavrov - «non appoggiamo Assad ma l’esercito» - e la presenza dei gruppi filo-sauditi in Siria saranno un altro rompicapo. La spartizione in aree di influenza non sarà comunque la fine della storia: i precari equilibri che si intravedono sono assai più labili di quelli disegnati cento anni fa dagli accordi anglo-francesi di Sykes-Picot.

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